America

Trump reloaded. Gli USA tra promesse di reindustrializzazione e mitologia tech

Gli USA alla prova della ricetta economica di Trump. La nuova coalizione MAGA, tra alfieri ultralibertari del settore tech e lavoratori delle aree rurali che sognano il ritorno della grande industria. L’America è in affanno, ma rimane pur sempre l’unica superpotenza.

25 Novembre 2024

Il tanto atteso primo martedì di novembre è arrivato, e ha spazzato via mesi di discorsi, ipotesi, previsioni, che prefiguravano un’elezione presidenziale con probabile esito incerto fino all’ultimo, addirittura con rischi di contestazioni del risultato e violenze. I cittadini americani, dall’Atlantico al Pacifico, hanno adottato una scelta chiara, inequivocabile, come non era successo nelle ultime due occasioni, esprimendo la netta preferenza per Donald Trump, vincente su Kamala Harris in tutti gli swing states e anche nel voto popolare, e per il Partito Repubblicano, che ha conquistato la maggioranza dei seggi sia alla Camera che al Senato. La red sweep pone ora in capo al presidente eletto e alla sua maggioranza un potere raramente osservato negli ultimi anni a Washington, che può beneficiare anche della maggioranza di stampo conservatrice alla Corte Suprema. Come Trump vorrà e saprà esercitare tale potere, e quale direzione vorrà imprimere alla politica americana, sia in patria che nelle questioni internazionali, è il maggior interrogativo nella testa di tutti gli analisti, operatori dei mercati e politici stessi degli USA e del mondo intero, da qui al giorno dell’inaugurazione del mandato presidenziale. A giudicare dai propositi enunciati in campagna elettorale e dalle prime nomine dei componenti della squadra di governo, l’amministrazione Trump 2.0 si preannuncia di netta rottura con il passato e, soprattutto, con l’establishment di Washington. A implementare le nuove policies sarà una compagine di fedeli esecutori delle direttive del tycoon newyorkese, espressione del movimento MAGA, che ha ormai fagocitato e conquistato il vecchio Great Old Party (GOP). Al vertice della superpotenza mondiale si prospetta quindi l’ascesa di una classe dirigente fondata su una complessa e atipica coalizione sociale, brillantemente descritta da Lorenzo Castellani su Le Grand Continent: isolazionismo populista-conservatore dell’America rurale e tecno-accelerazionismo efficientista a forti tinte futuriste e libertarie, con spruzzate di orgoglio patriottico ed esaltazione della forza militare a stelle e strisce. Ciò nonostante, essa dovrà dimostrarsi in grado di interfacciarsi con la burocrazia federale, le amministrazioni statali e con la stessa maggioranza parlamentare repubblicana che, almeno al Senato, è ancora espressione in buona parte del vecchio GOP, come si è potuto verificare dalla scelta di John Thune per il ruolo di capogruppo, in barba alla volontà del presidente eletto e dei suoi fedelissimi. Ma che cosa si propone di fare, quando sarà alla Casa Bianca, Donald Trump? E quali effetti avranno le sue azioni sugli USA, inclusi gli elettori che lo hanno scelto?

In politica interna, se ci sono pochi dubbi su come Trump imposterà le politiche su sicurezza e immigrazione, come pure sul probabile colpo di maglio ai danni di qualsiasi tematica etichettata come woke, il grande interrogativo riguarda il modo in cui egli darà concretezza alle sue idee di politica economica, vera chiave di volta del suo trionfo elettorale. Il magnate newyorkese ha riconquistato la Casa Bianca, in primo luogo, proprio per aver saputo convincere gli americani di essere più efficace per il loro portafoglio, rispetto alla controparte democratica, in particolare su questioni come lavoro e tasse, e in misura ancora maggiore sulla capacità di contrasto all’inflazione, sulla quale è andata pesantemente a sbattere l’amministrazione Biden-Harris. Le proposte del presidente eletto, come otto anni fa, si fondano sul calo della pressione fiscale, in particolare per i ceti medio-alti e le imprese, le quali dovrebbero beneficiare di una riduzione di ben sei punti della loro aliquota fiscale sugli utili. Insieme a tale misura Trump propone di eliminare la tassazione sulle pensioni, sugli straordinari e sulle mance, oltre che di abolire la doppia imposizione per gli americani residenti all’estero e favorire la deducibilità fiscale dei pagamenti dei finanziamenti per l’acquisto di automobili. Tutte misure che rischiano di provocare un ulteriore esplosione del rapporto deficit/pil, giunto già quest’anno alle soglie del 7% (in epoca di crescita. A che cifra arriverebbe in caso di crisi?), anche in virtù dell’impegno a rinnovare gli sgravi fiscali introdotti nel suo precedente mandato, in scadenza nel 2026. La prima soluzione a questo problema, tuttavia, sembrerebbe essere già individuata dal gruppo dirigente trumpiano nei dazi. Tariff, per dirla all’inglese, è la più bella parola del mondo secondo il neopresidente, che non mancherà di ricordarlo ai suoi omologhi stranieri. Nulla di nuovo, verrebbe da dire, ricordando quel che accadde tra il 2017 e il 2020, ma questa volta TheDonald si prefigge di elevare una barriera tariffaria generalizzata del 10% su tutti i beni importati, compresi quelli provenienti dall’Europa, che si innalzerebbe al 60% (!) su quelli cinesi e addirittura al 100% (!!) per i malcapitati paesi che si azzardassero a ridurre l’uso del dollaro (capito, BRICS?) e al 200% per le importazioni di veicoli dal Messico. Senza dimenticare le novità che potrebbero essere introdotte dalla programmata revisione dello U.S.-Mexico-Canada Agreement (USMCA) del 2026, che Trump verosimilmente brandirà contro il vicino meridionale, anche in funzione di contrasto ai flussi migratori. Quanto tali propositi bellicosi si tradurranno in realtà e quanto invece saranno utilizzati come arma contrattuale per stipulare nuovi accordi commerciali o conseguire risultati su altri fronti, lo diranno i prossimi mesi. Ma un altro rimedio all’eccesso di deficit e di debito, nei disegni dell’amministrazione entrante, consisterebbe nella più grande operazione di taglio di spesa pubblica della storia degli USA, affidata niente meno che a Elon Musk e al meno noto Vivek Ramaswamy, posti a guida del nuovo DOGE (dipartimento, organo consultivo, o qualunque cosa sia), sotto la cui scure, nel giro di un paio d’anni dovrebbero finire uscite per ben 2mila sui 6,5mila miliardi di dollari del bilancio federale. Che sia l’ennesima commissione destinata a fallire il disboscamento di costi o il proiettile d’argento con cui Trump e Musk rivolteranno l’America, non è ancora dato sapere, ma, considerati i personaggi, ci sarà da divertirsi.

 

A differenza della precedente avventura alla Casa Bianca, questa volta il programma di Donald Trump appare indubbiamente meno improvvisato, oltre che radicato nel sostegno di una porzione di America libertaria e proiettata verso il futuro tramite la corsa a spingere sempre più velocemente in avanti la nuova frontiera tecnologica. In tale quadro la figura dell’eccentrico e visionario Elon Musk emerge come il nuovo eroe, pronto a condurre gli americani su Marte e ad altre nuove conquiste del progresso tecnologico, tanto che al magnate di origine sudafricana, già paladino del free speech dopo l’acquisto di X, fu Twitter, è stato per ora concesso perfino il privilegio del ruolo di presidente ombra, con tanto di frequenti incursioni, dalle colonne del suo social network, nel dibattito politico interno e internazionale. Con buona pace degli scrupoli sui conflitti di interesse di un imprenditore che riceve commesse federali per miliardi di dollari, ed è attivo su diversi settori strategici, dall’automotive avanzato all’aerospazio, passando per le telecomunicazioni satellitari e l’intelligenza artificiale (AI). Almeno fino a quando, e se, il suo ben esteso ego non entrerà in rotta di collisione con quello di Trump, che, del resto, ha già fatto capire di non gradire certo di essere commissariato, con la nomina di Scott Bessent al tesoro, nonostante l’esplicito pollice verso del proprietario di X. Ma alle spalle di Musk vi sono diversi altri soggetti, già finanziatori del tycoon, ansiosi di indirizzare la politica americana verso il sostegno e il via libera alle proprie iniziative industriali e finanziarie, senza troppe interferenze regolatorie da parte dell’amministrazione federale, che invece con Biden si era caratterizzata per un approccio maggiormente basato sugli aspetti etici e di tutela dei cittadini, in particolare su temi come l’AI e Big Tech. A cominciare da Peter Thiel, amico ed ex socio di Musk, nonché mentore del neo vice-presidente J.D. Vance, e sostenitore di Trump già dal 2015. E’ un blocco sociale visibilmente elitista (a proposito delle critiche agli elitari democratici…) e oligarchico, fondato sul progresso tecnologico e sul venture capitalism, pronto ad andare allo scontro con quello che fino ad ora era stato l’establishment finanziario, imperniato sulle Big Three (Blackrock, Vanguard, State Street), e con altri colossi tech (Amazon, Microsoft, Nvidia, Open AI), che tuttavia riesce a fare maggior presa sugli animal spirits d’oltre oceano, grazie al potente mix di suggestioni generate da viaggi interplanetari, criptovalute, potenziamento delle capacità umane e chissà cos’altro. E’ un movimento che, in fin dei conti, rinnova a suo modo il mito della frontiera americana, ispirandosi alla corrente filosofica denominata accelerazionismo, sembrerebbe di poter dire nella sua accezione di destra, le cui protesi più estreme si sono negli ultimi anni spinte fino ad immaginare scenari vagamente distopici e non troppo figurativamente reazionari (Nick Land, Curtis Yarvin). Sgravi fiscali ai ceti elevati, enormi tagli alla spesa sociale, forte accelerazione su tematiche come l’AI, con tutte le conseguenze immaginabili per i posti di lavoro. Non proprio un programma rispondente alle necessità del lavoratore americano medio. Ma non c’è solo questo nei progetti e nella narrazione di Donald Trump.

                                                                                   

 

Fin da quando è sceso in politica, nel 2015, il presidente eletto ha impersonato il ruolo di paladino del Forgotten (white) man, ovvero quel ceto sociale, rappresentato principalmente dai lavoratori dell’industria nelle aree interne del paese, penalizzato dalla globalizzazione e dalla deindustrializzazione degli USA, tradizionalmente imputate ai democratici, incluso Barack Obama. Il Make America Great Again significava, tra le altre cose, riportare le fabbriche, e conseguentemente il lavoro di qualità, sul territorio nazionale, e su tale prospettiva si è fondata la conquista elettorale degli stati del Midwest, nel 2016, e di nuovo quest’anno, dopo la sconfitta di quattro anni fa ad opera di Biden. Il principale mezzo utilizzato per tale scopo è stato l’utilizzo delle barriere tariffarie, soprattutto ai danni della Cina, che Trump, come già scritto, si propone di brandire ulteriormente nel prossimo quadriennio, al fine di scoraggiare le importazioni di beni e favorire quindi gli investimenti produttivi in loco. Inutile ricordare che i risultati della sua prima esperienza alla Casa Bianca sono stati largamente inferiori ai proclami elettorali, avendo prodotto un sostanzioso calo nel deficit commerciale con Pechino, però più che compensato dalla crescita del disavanzo nei confronti di altri paesi, come il Vietnam e, soprattutto, il Messico, diventati succursali e intermediari dell’industria cinese. Non va del resto dimenticato che l’obiettivo di reinternalizzare parte della produzione industriale risponde anche a criteri in tema di sicurezza nazionale, in particolare riguardo prodotti tecnologicamente sensibili dell’elettronica avanzata, a cominciare dalle batterie. Non è un caso che esso sia ormai considerato bipartisan, e che la stessa amministrazione Biden abbia più di ogni altra precedente investito denaro pubblico per favorirlo, tramite l’Inflation Reduction Act (IRA) e il Chips Act. Mentre si attendono revisioni all’IRA, soprattutto per gli aspetti legati alla transizione ecologica, eufemisticamente non più in cima alla lista delle cose da fare, si sprecano le valutazioni su quel che potrebbe comportare la preannunciata nuova ondata di dazi, che significherebbe probabili guerre commerciali con i partner e rischi di crescita dell’inflazione, se pur parzialmente compensata dall’apprezzamento del dollaro, già in corso. Al fine di scongiurare un nuovo aumento del livello dei prezzi, vero spauracchio per il cittadino americano, nonché buccia di banana su cui è caduto Biden, l’amministrazione entrante si propone di deregolamentare la produzione petrolifera nazionale, utilizzando così l’enorme potenziale domestico per ridurre il prezzo del greggio, nonostante i plausibili tentativi sauditi di stabilizzare i listini. Tanto più che Trump è da sempre contrario alle restrizioni per motivi di politica ambientale, e che si accinge ad uscire dagli Accordi di Parigi per il contrasto al cambiamento climatico. Ma il principale interrogativo, soprattutto in caso di ripresa dell’inflazione, rimane il rapporto con la Federal Reserve, il cui governatore, Jerome Powell, verosimilmente risponderebbe con l’innalzamento dei tassi di interesse, tradizionalmente mal digeriti dal tycoon. Il mandato di Powell scade a metà del 2026 e, fino ad allora, si potrebbe assistere a fuochi d’artificio.

 

Gli USA si apprestano ad entrare nel nuovo quadriennio con Trump alla Casa Bianca e un GOP quasi completamente egemonizzato dal movimento MAGA, nel bel mezzo di uno dei momenti più difficili della loro storia recente. Gli ultimi quindici anni hanno visto la preoccupante crescita della conflittualità politica e sociale, con l’affermazione di movimenti portatori di posizioni estreme, come il wokism e Black Live Matters da una parte e i Tea party e lo stesso MAGA dall’altra. Una conflittualità, che è degenerata nelle cosiddette culture wars, le quali hanno tracciato un profondo solco tra diverse e inconciliabili interpretazioni della storia e della stessa identità degli USA, e che è giunta fino all’incredibile assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. Tale contrapposizione si inserisce in un contesto internazionale caratterizzato da crescenti difficoltà a mantenere il livello egemonico conquistato negli anni ’90 del secolo scorso, anche per la comprensibile ritrosia a sostenerne i costi umani ed economici da parte della popolazione, afflitta da quella che Dario Fabbri definisce stanchezza imperiale. Semplificando molto, la vittoria nella guerra fredda, invece di portare al benessere generalizzato, come era prospettato dall’euforia neoliberale del post ’89, è stata la premessa per deindustrializzazione e scoppi improvvisi di bolle finanziarie (Dot-com 2000, Enron 2001, Subprime 2007-2008). Da qui la crescita delle disuguaglianze (Gini index da 0,35 del 1980 a oltre 0,41 del 2022 – dati World Bank) e, insieme con essa, l’aumento dell’insoddisfazione nella popolazione, testimoniata anche da fenomeni di diffusione delle patologie depressive (al 29% degli americani è stata diagnosticata almeno una volta – dati Gallup) e delle morti per suicidio, alcolismo o overdose (il Fentanyl uccide ormai 100 mila persone all’anno), in un paese in cui, nonostante l’enorme ricchezza e lo status di superpotenza globale, si è assistito tra il 2019 e il 2021 ad un calo della speranza di vita, non ancora del tutto recuperato dopo la fine della pandemia Covid-19, e fissato a 77,5 anni nel 2022 (dati CDC, 2023). Eppure, nonostante tutto, gli USA continuano a mostrare una società relativamente dinamica e un’economia fortemente in crescita, con un alto tasso di imprese attive nei settori tecnologicamente avanzati, senza paragoni con quanto accade, ad esempio, in Europa. Anche la governance politica, se confrontata con lo scenario europeo, appare più efficiente e rispondente in misura maggiore a criteri di pragmatismo e decisionismo, nonostante le non rare situazioni di stallo tra governo e Congresso. Inoltre, pur essendo ormai apertamente sfidata nel loro ruolo di egemone globale, l’America rimane l’unica superpotenza, a distanza siderale dai competitors per forza militare, sviluppo tecnologico e dominio dei mercati finanziari. Donald Trump si prepara dunque a prendere le redini di quella che Madeleine Albright definì la nazione indispensabile, pur con tutti i limiti che il Presidente degli USA incontra nel suo rapporto con il Congresso, gli apparati federali e i singoli stati. Il suo tentativo sarà quello di sostituire la classe dirigente governativa con una nuova, per poter mutare in profondità la traiettoria politico-culturale nel paese in cui la postdemocrazia, secondo la definizione di Colin Crouch, è probabilmente giunta ai suoi livelli massimi, tra le sofisticate macchine della propaganda e l’esorbitante peso di potentati economici e grandi finanziatori delle campagne elettorali. Oligarchia al posto di un’altra, laddove quella entrante sembrerebbe oggi incontrare maggiormente i favori, per quanto mutevoli, dell’opinione pubblica. L’esito di tale impresa lo scopriremo, forse, tra qualche anno.

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