America

Trump pareggia con i democratici. E adesso?

7 Novembre 2018

Poche sorprese. Alla fine, le previsioni dei sondaggi sono state confermate. Le elezioni di metà mandato si sono concluse con un pareggio: stando agli ultimi dati, la Camera dei Rappresentanti sarebbe stata conquistata dal Partito Democratico, mentre i repubblicani sarebbero riusciti a mantenere il controllo del Senato.

Ovviamente non si tratta di un’ottima notizia per il presidente americano, Donald Trump, che adesso rischia di trasformarsi nella proverbiale “anatra zoppa”: controllando uno dei due rami del Congresso, l’Asinello potrà infatti bloccare i provvedimenti legislativi avviati dal Partito Repubblicano e cercherà senza dubbio di mettere i bastoni tra le ruote al magnate su numerosi dossier (a partire dalla linea dura sull’immigrazione). Inoltre, non bisogna trascurare che, detenendo la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, i democratici potrebbero anche istruire un processo di messa in stato d’accusa ai danni del presidente: una eventualità che, per quanto probabilmente destinata a finire in un vicolo cieco, potrebbe paralizzare l’attività amministrativa di Trump addirittura per mesi. Infine, questo risultato in chiaroscuro, potrebbe anche compromettere la leadership del miliardario all’interno dello stesso Partito Repubblicano: non è difatti che escluso che, qualora decidesse di ricandidarsi alla Casa Bianca, il magnate possa vedersi contesa la nomination repubblicana nel 2020 da qualche compagno di partito (una situazione già vista nel 1976, quando Ronald Reagan sfidò apertamente Gerald Ford).

Se dunque i grattacapi per il presidente non sono pochi, bisogna tuttavia valutare la situazione sotto ogni aspetto, analizzandone le varie articolazioni. Innanzitutto non dobbiamo dimenticare che, storicamente, le elezioni di metà mandato si rivelino un insuccesso per il partito che guida la Casa Bianca. In secondo luogo, non è del tutto corretto derubricare le midterm semplicisticamente a un referendum sulla presidenza in carica: per quanto tale elemento sia sicuramente presente, non dobbiamo trascurare che in questa tipologia di elezioni svolga – soprattutto per il Senato –  un ruolo fondamentale l’aspetto locale e territoriale. Inoltre, venendo alle dinamiche di Washington, è bene rilevare che i repubblicani, pur non avendo conseguito un risultato eccelso, abbiano comunque tenuto. E che a loro resti, in fin dei conti, la camera più importante: soprattutto per quanto riguarda la Corte Suprema e – più in generale – la magistratura. E’ infatti esclusivamente la camera alta ad occuparsi di ratificare le nomine dei nuovi giudici. Ragion per cui, controllando il Senato, l’Elefantino avrà ancora mano libera nello spostare sempre più a destra la giustizia americana. Del resto, anche in caso di impeachment, è la Camera dei Rappresentanti a istruire il processo ma è poi il Senato a votare sul verdetto di colpevolezza: un verdetto che richiede un quorum particolarmente elevato (due terzi dei senatori) e – per questo – quasi impossibile da raggiungere.

Infine, diamo un occhio al Partito Democratico. Nonostante il buon risultato, è tutto da dimostrare che quella davanti a cui ci troviamo possa seriamente essere definita una sua rinascita. Anche perché la tanto preconizzata “onda democratica” alla fine non si è verificata. Sono più di due anni che l’Asinello risulta infatti dilaniato da lotte intestine tra centristi e radicali. Si pensi solo che, tra i candidati democratici di queste midterm, molti hanno fatto campagna elettorale criticando la leader della minoranza alla Camera, Nancy Pelosi, anziché Donald Trump. Senza considerare poi che, negli ultimi mesi, l’Asinello abbia di fatto adottato una strategia molto aggressiva e un po’ settaria: tutti elementi che mostrano come la sua crisi sia ancora ben lontana dall’essere superata. E non è affatto detto che, proseguendo su questa linea, possa alla fine riuscire a risollevarsi. Non sarà forse un caso che, tra i democratici, ci siano pareri discordanti sull’opportunità di intraprendere la strada dell’impeachment: molti temono infatti che una simile mossa possa produrre un effetto boomerang (come accadde ai repubblicani nel 1999, ai tempi di Bill Clinton).

A questo punto, per i prossimi due anni le strade sono due. O il muro contro muro, con conseguente paralisi dell’agone politico americano (una eventualità che potrebbe rivelarsi alla fine un favore elettorale a Trump). O la collaborazione. Un’ipotesi di fantapolitica? Non esattamente. Nonostante l’attuale presidente venga spesso dipinto come un estremista di destra, la situazione è infatti leggermente più complessa. Donald Trump è una figura politica profondamente trasversale che, su svariate questioni, è molto più vicino alla tradizione della sinistra democratica che al reaganismo repubblicano. Si pensi solo al commercio internazionale e – soprattutto – alla riforma infrastrutturale. Si tratta di tematiche su cui – almeno teoricamente – dovrebbe essere possibile una certa sintonia con ampi settori del Partito Democratico. Una via complicata, è vero. Ma che aiuterebbe tutti a uscire dall’impasse. Se i democratici potrebbero infatti finalmente abbandonare l’ostruzionismo sterile che li ha caratterizzati in questi ultimi due anni, Trump avrebbe invece l’occasione per isolare quelle frange repubblicane più tradizionali con cui non ha mai intrattenuto rapporti troppo cordiali. Questo nuovo Congresso diviso può insomma acuire la crisi delle istituzioni americane. O rappresentare un’insperata ancora di salvezza.

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