America

Ebbene sì: Trump è un centrista

16 Marzo 2019

In un editoriale pubblicato qualche giorno fa su Il Corriere della Sera (L’America senza centro), Angelo Panebianco ha tracciato un quadro ben poco lusinghiero dell’attuale scenario politico statunitense. In sostanza, il politologo lascia chiaramente intendere che Donald Trump sarebbe un presidente estremista e che – proprio per questo –avrebbe suscitato una durissima opposizione a sinistra del Partito Democratico: un’opposizione altrettanto radicale che – isolando le correnti centriste dell’Asinello – finirà probabilmente con l’avvantaggiare il magnate newyorchese alle elezioni del 2020.

Per quanto una parte di questa analisi risulti indubbiamente corretta (soprattutto quando tratta della progressiva radicalizzazione del fronte dem), c’è tuttavia una visione di fondo che lascia abbastanza perplessi. Siamo veramente sicuri che l’attuale presidente americano possa definirsi un estremista? A prima vista, le cose sembrerebbero stare realmente così. Non solo l’inquilino della Casa Bianca ricorre sovente a un linguaggio particolarmente duro ma – soprattutto in politica estera – sembra stia sconvolgendo la tradizionale strategia internazionale statunitense. Eppure, a ben vedere, c’è qualcosa che non torna. Perché, nonostante possa essere controintuitivo, è forse proprio Donald Trump il vero rappresentante del centro nell’attuale agone politico statunitense. E questo per una serie di ragioni.

Innanzitutto, se il magnate newyorchese fosse stato veramente un estremista, non sarebbe mai riuscito a conquistare la Casa Bianca. Il sistema elettorale americano è strutturato difatti in modo tale che, per vincere le presidenziali, un candidato debba saper conquistarsi il voto degli elettori indipendenti e di quelli delusi dal partito avverso. Un insieme di quote elettorale trasversali ed eterogenee che una figura radicale non può essere certo capace di intercettare. Sotto questo aspetto, del resto, gli esempi non mancano. Alle primarie repubblicane del 2016, il senatore texano Ted Cruz si candidò con il principale obiettivo di rappresentare la destra evangelica: una frangia indubbiamente importante per i repubblicani ma che – da sola – non basta ad assicurare a un candidato la possibilità di arrivare alla nomination del partito. Figuriamoci alla Casa Bianca! Del resto, quello di Cruz è un destino toccato anche ad altri candidati troppo focalizzati sull’ultraconservatorismo: si pensi solo all’ex governatore dell’Arkanas, Mike Huckabee, che trovò non a caso la sconfitta alle primarie repubblicane del 2008. Anche a sinistra, poi, ci sono casi interessanti: Jesse Jackson si ritrovò azzoppato alle primarie democratiche del 1984, per aver impostato la propria campagna elettorale quasi esclusivamente sul sostegno delle minoranze etniche. E’ pur vero che – nel 1972 – la nomination dell’Asinello venne conquistata da George McGovern, candidato profondamente radicale per l’epoca: ma non va dimenticato che le primarie di quell’anno vennero in parte manipolate dai nixoniani che favorirono non a caso l’ascesa di una figura facilmente battibile alle presidenziali. E infatti il Partito Repubblicano mantenne con facilità il controllo della Casa Bianca.

In questo senso, bisogna rilevare che – ben lungi da ogni strategia estremista – Trump, nel 2016, abbia potuto contare su una coalizione elettorale trasversale ed eterogenea. Una coalizione poggiata su svariate categorie elettorali, storicamente appartenenti a differenti culture politiche: dalla classe operaia impoverita della Rust Belt (proveniente dal bacino democratico) alla destra evangelica (tradizionalmente vicina al Partito Repubblicano). Inoltre, la trasversalità dell’elettorato di Trump è testimoniata anche da un altro elemento: il fatto che, nel 2016, il magnate sia riuscito a conquistare la maggioranza del voto cattolico. Una frangia elettorale storicamente centrista che si è assai spesso rivelata l’ago della bilancia in molte presidenziali americane. Va da sé che un elettorato così eterogeneo non sarebbe mai potuto essere conquistato da un candidato autenticamente estremista e settario. E non sarà un caso che alcuni Stati storicamente centristi (come per esempio il Michigan) abbiano deciso di appoggiare l’ascesa del magnate newyorchese.

Certo: è chiaro che molte quote elettorali un tempo collocate su posizioni moderate oggi siano profondamente cambiate. La classe operaia della Rust Belt è da tempo arrabbiata e ha votato Trump soprattutto per contrastare i trattati internazionali di libero scambio. Il magnate ha quindi sfruttato malcontento e paura per vincere nel 2016? Anche. Ma questo non basta a farne un “estremista”. Basti ricordare che Thomas Hobbes riteneva che la paura fosse una base necessaria per costituire uno Stato in grado di difendersi dagli opposti settarismi (potenzialmente forieri di guerra civile). La stessa Democrazia Cristiana, in Italia, ha del resto costruito discreta parte dei propri successi elettorali, evocando la paura del comunismo a tutela della stabilità. Certo: ci sono casi in cui la stabilità può gettare le basi di un Leviatano autoritario. Ma – francamente – non ci sembra il caso dell’America di Trump, dove c’è una costituzione che limita rigidamente i poteri presidenziali. E, d’altronde, i recenti attriti tra Casa Bianca e Congresso stanno esattamente a dimostrare l’assenza di questo eventuale rischio.

Che Trump sia un centrista non è, poi, solo evidenziato dai suoi bacini elettorali. Ma anche dal suo stile di governo. In politica interna, il presidente ha più volte cercato di posizionarsi in uno stadio intermedio rispetto agli estremi opposti. Nel suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione, il magnate ha infatti criticato duramente la sinistra del Partito Democratico, dichiarando che gli Stati Uniti non saranno mai un Paese socialista. Dall’altra parte, però, il presidente sta contemporaneamente cercando di smorzare l’ortodossia liberista repubblicana su svariate questioni: dalla riforma infrastrutturale alla politica commerciale. Non dimentichiamo infatti che tra i principali critici dei suoi dazi figurino senatori appartenenti al suo stesso partito. Venendo poi alla politica estera, parlare di estremismo appare forse un po’ eccessivo. Trump sta infatti seguendo una linea tendenzialmente realista, che cerca di superare le vecchie logiche della Guerra Fredda. Una linea magari criticabile ma – se vogliamo parlare di estremismo – dovremmo allora forse rivolgerci a un certo establishment di Washington che auspica ancora oggi crociate umanitarie, in nome dell’eccezionalismo americano.

Insomma, il vero centrista della politica americana oggi è proprio Donald Trump. Ed è questa collocazione che deve probabilmente sforzarsi di mantenere, se vuole essere rieletto nel 2020.

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