America
Trump, il candidato con la parrucca che turba l’America parruccona
Un turbine sconvolge ormai da mesi il Partito Repubblicano: ha una folta parrucca bionda, un conto in banca non indifferente e un linguaggio vagamente sguaiato. Avete già capito che parliamo di Donald Trump. E – l’ha giurato – non si tirerà indietro davanti a nulla: pur di arrivare alla conquista della Casa Bianca.
Allorché lo scorso giugno annunciò la propria discesa in campo per la corsa in vista delle primarie repubblicane, nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato sul decollo della sua campagna elettorale. Un miliardario megalomane e annoiato – si diceva – che non sa più come diavolo trascorrere il proprio tempo. E che per questo tenta l’avventura politica, quasi fosse un gioco. Un po’ per snobismo, un po’ per fatti pregressi, la gran parte degli analisti ritenne che la sua corsa politica si sarebbe risolta in uno show fine a sé stesso, implodendo per autocombustione. Mai profezia si rivelò più errata.
Nel giro di pochi mesi, il magnate ha letteralmente dato scalata al Grand Old Party, il Partito repubblicano appunto, salendo vertiginosamente nei sondaggi che lo danno adesso in testa non solo a livello nazionale ma anche in alcuni degli Stati più importanti (Iowa e New Hampshire in primis). I media lo attaccano. Il New York Times ne critica il linguaggio e i messaggi. L’Huffington Post si rifiuta di parlarne nella sezione di politica, relegandolo a quella dello spettacolo. Eppure il popolo lo ama. E ai suoi comizi fa il pieno di gente.
Ma com’è stata possibile un’ascesa così repentina? E soprattutto: chi è questo strano personaggio?
L’uomo d’affari
Nato a New York nel 1946, dopo gli studi universitari rimase subito folgorato sulla via del settore immobiliare. Avviò difatti la propria carriera imprenditoriale nell’azienda del padre Fred, la Elizabeth Trump and Son, specializzata nell’affitto di case a Brooklyn: azienda che usò sostanzialmente come trampolino di lancio, per gettarsi poco dopo a capofitto nel mondo dell’edilizia. Trasferitosi a Manhattan, fondò difatti nel 1971 la Trump Organization, società con cui si impegnò (e si impegna tuttora) nella costruzione e nella gestione di numerosi edifici di classe alta (dai grattacieli residenziali ai villaggi vacanze) tendenzialmente nell’area di New York, arrivando per questo anche ad uno scontro con il Dipartimento di Giustizia nel ’73, che gli contestò alcune violazioni del Fair Housing Act.
Ma è con l’avvento degli anni ’80, che Trump ha tentato il grande balzo in avanti, progettando di intersecare la propria attività edilizia con il business del gioco d’azzardo: iniziò a comprare (e a costruire) diversi casino: una strategia che – per quanto indubbiamente remunerativa – lo portò verso un indebitamento crescente. Un indebitamento che sfociò nella sua prima dichiarazione di bancarotta all’inizio degli anni ‘90.
Eh sì, perché qui sta uno dei grandi guai del nostro Donald. Lui, che soprattutto in questa campagna elettorale non fa che ribadire il valore della propria esperienza professionale nel business, con la bancarotta pare abbia proprio un’assidua frequentazione. Certo, è giusto sottolineare il fatto che non abbia mai dichiarato fallimento personale. Ma di aziende finite al tracollo il Nostro ne ha avute comunque ben quattro. Il suddetto casino, Trump’s Taj Mahal ad Atlantic City nel 1991, il Trump Plaza Hotel sempre ad Atlantic City nel 1992, più problemi simili con altri alberghi e resort nel 2004 e nel 2009. In tutte queste occasioni generalmente il magnate ha cercato di appellarsi al capitolo 11 della legislazione statunitense sulla bancarotta: dichiarare fallimento e richiedere una riorganizzazione del debito, lasciando al contempo la determinata struttura in attività (non impedendo tuttavia questo di far saltare ogni volta numerosi posti di lavoro).
Una serie di pecche che Trump non ricorda con eccessivo piacere. Quando qualcuno tocca difatti la dolente nota (si veda il dibattito televisivo di Cleveland), non è che la prenda proprio bene: si irrita, sbuffa e si difende dicendo che la strada per il successo imprenditoriale è lastricata anche di fallimenti. Più che giusto, per carità! Purché – da eventuale presidente – non abbia intenzione mandare in default gli Stati Uniti d’America.
Come che sia, incurante delle critiche, spavaldo e megalomane, il novello Paperon de’Paperoni nel corso degli ultimi vent’anni si è esteso in una miriade di settori: dalla ristorazione (con la Trump Restaurants), alla finanza (con la Trump Financial), passando per l’editoria (si veda la Trump Books), sino all’intrattenimento (è a capo, tra le altre cose, della Trump Productions, azienda finalizzata alla produzione di programmi televisivi).
E proprio il settore dell’intrattenimento ha rappresentato l’origine della sua seconda vita. Non solo come imprenditore ma anche – e soprattutto – come personaggio mediatico. Nel corso degli anni, Trump ha tenuto programmi radiofonici, partecipato a ospitate televisive, non disdegnando di apparire in sitcom e film, interpretando sé stesso (talvolta anche in chiave ironica e caricaturale). Dal 1996 ha inoltre acquisito i diritti dei concorsi di bellezza di Miss Usa e Miss Universo, per quanto – la vera notorietà mediatica – se la sia conquistata a partire dal 2003, grazie alla sua partecipazione allo show “The Apprentice”: partecipazione che lo ha consacrato a vera e propria icona pop: un personaggio dallo stile bizzarro, volgare e istrionico.
Un personaggio in cui artificio e spontaneità si mescolano furbescamente. Un personaggio che in termini di sponsor e di share vale oggi tanto oro quanto pesa. Un personaggio apprezzato (e finanche idolatrato) dai propri telespettatori. Un personaggio che congiunge abilmente amorevolezza e sarcasmo: che dietro a ogni complimento cela una lingua venefica, pronta a distruggere la propria incauta vittima. Un personaggio che può permettersi ormai di dire senza limiti tutto quello che vuole, dall’alto del suo biondo toupet (lui – per la cronaca – ci tiene a ribadire che sono capelli veri).
Un personaggio che ha compreso perfettamente la sempre più intima connessione tra business, mainstream mediatico e mondo politico. E difatti Donald, dopo anni di tentennamenti, siccome – evidentemente – è l’America il paese che ama, alla fine è sceso in campo.
L’appassionato finanziatore della politica
L’interesse mostrato da Donald Trump per la politica non è recente. Al di là di un’effimera esperienza tra le fila del Reform Party, è difatti almeno dai primissimi anni del 2000, che il magnate ha intrecciato feconde relazioni con i salotti politici newyorkesi. E così, da buon imprenditore, tanto per non scontentare nessuno e tenersi buoni tutti, ha per lungo tempo finanziato le campagne elettorali di candidati, tanto democratici quanto repubblicani, sia al Senato sia alla Casa Bianca.
Sennonché, nonostante questi cospicui foraggiamenti bipartisan, risulta indubbia la propensione da Trump espressa in quel periodo per la compagine democratica: una propensione, soprattutto esplicitata dalla solida amicizia del miliardario con la famiglia Clinton. Un’amicizia di lunga data, testimoniata non soltanto dalla presenza dei due coniugi Clinton al terzo matrimonio del magnate ma soprattutto dal fatto che quest’ultimo abbia ampiamente finanziato le campagne elettorali sostenute da Hillary per la conquista del seggio senatoriale del New York nel 2000 e nel 2006. Senza poi dimenticare che, nel 2007, in piena corsa per le primarie democratiche, Trump annunciò alla CNN il proprio incondizionato appoggio all’ex first lady, proferendo parole di elogio nei confronti della sua persona e delle sue capacità.
Una particolare affinità verso i democrats, che si palesava all’epoca anche sotto il profilo più smaccatamente ideologico. Non che Trump si sia mai granché interessato alla politologia, ma non ha mai fatto mistero di essere vicino a posizioni tendenzialmente liberal, per esempio in campo etico. A questo proposito, vale forse la pena ricordare come – sempre nel 2007 – Trump abbia appoggiato anche – sul fronte repubblicano – la candidatura di Rudolph Giuliani, allora dato come favoritissimo da quasi tutti i sondaggi.
Ora, è abbastanza plausibile ritenere che quell’appoggio scaturisse primariamente dal fatto che Giuliani fosse stato sindaco di New York e – come detto – Trump ha sempre cercato di mantenersi aperte tutte le porte nella piazza politica della Grande Mela. Ma non bisogna neppure dimenticare che Giuliani si presentava allora come un “maverick”: repubblicano, sì, ma su posizioni molto eccentriche e spesso in contrasto con quelle del proprio partito (soprattutto – guarda caso – sulle questioni eticamente sensibili): tanto che la religious right era usa bollarlo spregiativamente come liberal. Senza poi contare, che poco dopo, a settembre del 2008, Trump diede infine il suo appoggio proprio a John McCain (altro repubblicano non esattamente in linea con l’ortodossia destrorsa del GOP).
Poi, nel 2011, la svolta. Improvvisamente Trump si scoprì acerrimo avversario di Barack Obama e, in occasione dell’annuale Conservative Political Action Conference, prese la parola, esponendo quello che – a tutti gli effetti – apparve a molti come un vero e proprio programma politico: un miscuglio abbastanza confuso di elementi dai tratti profondamente populistici, che spaziava dalla proposta di politiche economiche radicalmente anti-tasse a una strenua contrarietà nei confronti dell’Obamacare, passando per posizioni duramente restrittive in tema d’immigrazione. A questo aggiunse ben presto un particolare attivismo anti-obamiano: si mise difatti fieramente alla testa del movimento dei birthers, secondo cui l’attuale presidente sarebbe in realtà nato in Kenya e dunque insediatosi incostituzionalmente alla Casa Bianca. Trump sfidò pubblicamente l’inquilino dello Studio Ovale, chiedendo che presentasse il proprio certificato di nascita.
Tutto questo portò svariati commentatori a ritenere plausibile una sua discesa in campo per le presidenziali del 2012 ma il magnate stroncò sul nascere ogni illazione, dichiarando di non essere interessato alla corsa.
Anche per questo, quando a maggio scorso iniziarono a circolare insistentemente voci di una sua discesa in campo per la nomination repubblicana, quasi nessuno credette lo avrebbe fatto veramente. E invece, il 16 giugno, ecco una conferenza stampa esplosiva, tenuta a New York nella sua Trump Tower, in cui il magnate annunciava formalmente la propria candidatura: riproponendo sostanzialmente le linee programmatiche già espresse tre anni fa e facendo delle sue posizioni anti-immigrazione il proprio vigoroso cavallo di battaglia.
Da allora la sua ascesa è stata inarrestabile. Mescolando le proprie proposte smaccatamente populistiche al suo consueto stile (istrionico, diretto e volgare), Trump è rapidamente cresciuto nei sondaggi, sparigliando letteralmente le carte all’interno di un GOP sorpreso e sostanzialmente impreparato ad una simile situazione. Si è buttato nella mischia energicamente, costringendo quelli che erano sempre apparsi come i naturali front runner (Jeb Bush e Scott Walker) ad inseguirlo. Ha presentato un messaggio politico che – proprio in quanto guazzabuglio caotico di elementi eterogenei – si sta rivelando ampiamente trasversale e quindi attrattivo per quote elettorali di cospicue dimensioni.
Ma il suo fiore all’occhiello resta comunque la strategia comunicativa, essenzialmente finalizzata allo scardinamento di un politically correct sempre più inviso a frange crescenti dell’elettorato statunitense, nonché al picconamento sistematico dell’establishment, quello repubblicano in primis. Un’ascesa inarrestabile, si diceva. Sino ad oggi garantita dalla straordinaria capacità di ritorcere le accuse ricevute contro i propri avversari: dalla capacità di trasformare le proprie gaffe in punti di forza.
Quando ribadì la propria intenzione di costruire un muro al confine col Messico per impedire i flussi migratori clandestini, subito la stampa lo accusò di razzismo, squalificandolo moralmente e preconizzando la sua imminente caduta. Ma l’elettorato dei giudizi moralistici dell’establishment se ne infischiò letteralmente e iniziò a sostenerlo proprio per reazione. Un mese fa, Trump attaccò pubblicamente McCain, negandogli lo status di eroe di guerra, il New York Times sostenne si fosse dato la zappa sui piedi e che la base repubblicana non gli avrebbe mai perdonato un simile oltraggio. E invece, sorprendendo tutti, salì nei sondaggi. Ancora: quando durante il dibattito televisivo di Cleveland si lasciò andare a commenti poco garbati verso la giornalista Megyn Kelly, si levò nuovamente un vespaio di polemiche e profezie su una sua imminente caduta: profezie quella volta tuttavia confortate da un sondaggio di Rasmuessn, che registrava effettivamente un suo crollo di quasi dieci punti percentuali. Sennonché, anche in quell’occasione è riuscito a rialzarsi e attualmente – come si diceva – figura in testa non soltanto a livello nazionale ma anche – e soprattutto – in diversi Stati importanti. Lui incassa, ringrazia e ribadisce la sua intenzione di conquistare White House con ogni mezzo: anche spaccando il partito, correndo da indipendente.
I precedenti
Nonostante la novità radicale e dinamitica, attualmente incarnata dal miliardario in toupet, è bene comunque ravvisare come nella storia americana esistano alcuni precedenti di personaggi che – almeno sotto determinati aspetti – somigliano alla figura politica di Trump. In particolare, se ne possono citare due: Ross Perot e Huey Pierce Long.
Ross Perot. Anche lui multimiliardario, decise di candidarsi come indipendente alle presidenziali del 1992. Non ottenne neanche uno Stato ma la sua discesa in campo bastò a frantumare il fronte repubblicano e a impedire a G. H. Bush di essere rieletto. Ora, per quanto il programma di Perot presentasse connotati meno populistici, rispetto a quello ben più radicale di Trump, risulta evidente come l’affinità tra i due consista principalmente nella comune propensione a imbracciare la strategia del “terzo incomodo”: pronto a sparigliare le carte, cercando di scardinare il consueto bipartitismo statunitense. E difatti da più parti iniziano a circolare oggi timori di una scissione interna al GOP. Scissione che – soprattutto dopo le parole di Donald a Cleveland – appare sempre maggiormente probabile. Infine non dobbiamo dimenticare che fu proprio Perot a fondare nel 1995 quel Reform Party, alle cui primarie nel 2000 prese parte lo stesso Trump (per quanto con non eccessivo successo).
Huey Pierce Long. Governatore democratico della Louisiana dal 1928 al 1932, si caratterizzò per un radicalismo demagogico molto orientato a sinistra (soprattutto nella sua strenua opposizione al potere bancario). Dapprima fervido sostenitore di Franklin Delano Roosevelt, lo abbandonò nel 1933, progettando di correre come indipendente alle successive elezioni, restando tuttavia ucciso in un attentato nel 1935.
Ce la farà ?
Alla luce di tutto questo, appare abbastanza chiaro come i candidati indipendenti nella storia statunitense non abbiano mai avuto concrete chances di vittoria. E tutto questo rende allora ancor più problematica la ragione della candidatura di Trump. E’ davvero così sicuro di arrivare alla Casa Bianca? Che cosa gli fa concretamente sperare di riuscire laddove altri hanno fallito? Gli interrogativi sin dall’inizio sono risultati tanti.
Non sappiamo se – come dicono i complottisti – si tratti di un cavallo di Troia manipolato da Hillary Clinton per sfaldare il fronte repubblicano. Né se il caso Trump debba politologicamente essere inscritto nel più generale fenomeno di rinascita dei populismi, che sta attraversando ormai sempre più profondamente il mondo occidentale.
Come che sia, appare francamente difficile ad oggi che il Nostro possa concretamente sperare di arrivare a sedere nello Studio Ovale. E questo per una serie di ragioni: innanzitutto, la Storia mostra come i candidati in testa ai sondaggi tra il settembre e il novembre dell’anno precedente alle elezioni siano sovente destinati alla debacle (si vedano, ancora una volta, i casi di Hillary Clinton e Rudolph Giuliani nel 2007).
In secondo luogo, nonostante l’attuale consenso, è difficile ritenere possibile per Trump la conquista della nomination repubblicana: per quanti voti sarà in grado di rastrellare ha difatti diversi problemi. L’establishment del partito (a partire dai potentissimi e ricchissimi fratelli Koch) è chiaramente contro di lui; al di là delle sparate poi, non dispone ad oggi di un programma concreto e attuabile; al netto dei soldi (che di certo non gli mancano), non sembra ancora aver messo in piedi una macchina elettorale efficace che gli permetta di andare al di là di una prospettiva a breve termine in Iowa e New Hampshire; infine non dimentichiamo che si tratta comunque di una star televisiva, digiuna di vera esperienza politica: bisognerà dunque capire se il cospicuo consenso accumulato sinora sarà destinato a tramutarsi in voti effettivamente concreti. Anche qui, valga un precedente: nel 2004, il democratico Howard Dean era dato come favorito alle primarie del suo partito, in quanto candidato assai gradito al “popolo di internet”. Risultato: fu annientato al caucus dell’Iowa e costretto a ritirarsi ignominiosamente pochi giorni dopo.
In terzo luogo, anche se vincesse la nomination repubblicana, Trump troverebbe ciononostante enormi difficoltà a compattare un partito tanto eterogeneo come il GOP, proprio a causa del suo radicalismo. E’ pur vero che potrebbe trasversalmente attirare qualche frangia elettorale nuova ma perderebbe certamente l’appoggio dei moderati e – ovviamente – dell’elettorato ispanico, oggi sempre più centrale nell’agone elettorale statunitense.
In quarta istanza, l’ipotesi (tutt’altro che improbabile) di un terzo partito: indubbiamente su questo fronte Trump avrebbe del potenziale e non è escluso potrebbe magari conquistarsi un buon piazzamento. Addirittura migliore di quello ottenuto da Perot nel ‘92 (19% di voti popolari). Sennonché, come detto, l’ipotesi che un indipendente possa conquistare effettivamente la Casa Bianca è assolutamente irrealistica. Non ci riuscì Teddy Roosevelt nel 1912, figuriamoci Trump.
Infine: attenzione al paragone con Ronald Reagan. E’ pur vero che quest’ultimo provenisse dal mondo del cinema e che – in quanto attore – fosse inizialmente additato dai suoi avversari come candidato poco credibile. Ma non dobbiamo comunque dimenticare che quando scese in campo nel 1980 per la conquista della nomination repubblicana, faceva politica già da sedici anni, potendo inoltre vantare una lunga e importante esperienza amministrativa come governatore della California alle spalle. Elemento, questo, decisamente assente dal curriculum del creso Donald.
Sennonché, considerato tutto ciò, non bisogna comunque dare nulla per scontato. Troppe volte, come abbiamo visto, Trump è stato dato per morto. E tutte le volte è risorto, bastonando letteralmente i propri avversari. Troppe volte l’intellighenzia ha bollato superficialmente il magnate di sterile qualunquismo e tutte le volte lui è salito nei sondaggi, tirando diritto per la sua strada. Troppe volte il fenomeno Trump è stato deriso come impresentabile sul piano elettorale, salvo poi constatare realisticamente che una base di fedeli disposti a seguirlo c’è: una base in espansione. Perché alla fine la politica – al di là delle ipocrisie di qualche Nobel salottiero e di qualche intellettualoide harvardiano – deve fare i conti con la realtà.
E la realtà è che – piaccia o meno – con il suo populismo e il suo linguaggio colorito Trump sa parlare alla pancia dell’America profonda, rustica, grossolana, finanche razzista: un’America che potrà non piacere ma che esiste e di cui spessissimo i politici (tanto democratici quanto repubblicani) si sono colpevolmente dimenticati, per inseguire questa o quella minoranza, questa o quella ideologia.
Un’America profonda cui – appare evidente – gli attuali candidati alla Casa Bianca non riescono più a rivolgersi, presi come sono dalle proprie manfrine strategiche e dai loro equilibrismi retorici. Un’America profonda che – a torto o a ragione – si sente trascurata, umiliata, e infastidita. Che non guarda più con interesse agli estenuanti dibattiti ideologici tra liberismo e statalismo, che se ne frega del politicamente corretto, che – nella sua ingenua disillusione – è alla disperata ricerca di un eroe, che si faccia portavoce dei suoi sogni e del suo becerume, delle sue aspirazioni e delle sue paure. Un’America profonda che alla fin fine sa bene che Trump non conquisterà mai la Casa Bianca ma che ugualmente lo sostiene, perché vuole una voce che la rappresenti. Un’America profonda che non ne può più di vedersi imbrigliata all’interno di schemi ideologici e culturali che non le appartengono e che qualcuno – dall’alto del suo iperuranio intellettuale – vorrebbe imporle.
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