America
Trump antiproibizionista? L’ultima svolta è dietro l’angolo
Donald Trump potrebbe appoggiare una legge a favore della marijuana. Ad affermarlo, è stato lo stesso miliardario pochi giorni fa. E’ vero: detta così, la cosa appare non poco strana. Com’è possibile che un presidente, eletto sulla scia di un programma in puro stile law and order, scelga una simile linea politica? Ora, che Trump non possa definirsi un repubblicano classico, non è certo un mistero. Senza poi trascurare come una parte del conservatorismo statunitense ancora non si fidi completamente di lui. Eppure questa volta la consueta diatriba con la destra americana c’entra fino a un certo punto. La situazione difatti è piuttosto complessa e presenta beghe politiche non indifferenti.
Lo scorso 7 giugno, è stato presentato al Congresso un disegno di legge, che – se approvato – consentirebbe ai singoli Stati di varare norme a favore della marijuana, senza interferenze da parte del governo federale: si tratta di una proposta bipartisan, presentata dal senatore repubblicano, Cory Gardner, e dalla senatrice democratica, Elizabeth Warren. Il fatto che Trump si sia detto disposto a spalleggiare una simile proposta si spiega essenzialmente con due ragioni fondamentali.
Innanzitutto troviamo una motivazione di carattere ideologico. Storicamente gli Stati Uniti sono sempre risultati pervasi da un’aspra dialettica politica che vedeva (e vede) contrapposti i fautori dell’autonomia dei singoli Stati con chi invece difende le prerogative del governo federale. Un tempo, erano i democratici a sostenere la libertà degli Stati, fin quando – a partire dagli anni ’60 – i ruoli si sono invertiti e quella battaglia se la sono intestata i repubblicani. In tal senso, appoggiando questa norma, Trump strizzerebbe fondamentalmente l’occhio alle frange conservatrici più avverse al potere federale. Senza considerare poi che potrebbe anche cercare di accattivarsi le simpatie della sinistra del Partito Democratico: quella sinistra da sempre favorevole a rendere meno severa la legislazione in tema di marijuana e che – d’altronde – ha già dato in passato il proprio (parziale) plauso a Trump sulla questione dei dazi.
In secondo luogo, l’altro elemento che emerge dal sostegno presidenziale a questa legge attiene ad una faida tutta interna alla stessa amministrazione. Un autentico braccio di ferro che vede protagonisti lo stesso Trump e il ministro della Giustizia, Jeff Sessions. Quest’ultimo ha sempre mostrato un approccio durissimo sulle droghe leggere e – in questo senso – si è opposto ai provvedimenti siglati da Barack Obama per tutelare la nascente industria legata alla marijuana. In particolare, lo scorso gennaio, Sessions ha abrogato una direttiva che spingeva i procuratori a non incriminare soggetti che agivano in accordo con leggi statali sulla cannabis ad uso medico o ricreativo. D’altronde, secondo svariati osservatori, la recente proposta di legge avrebbe principalmente l’obiettivo di contrastare quell’abrogazione.
Alla luce di tutto questo, non bisogna dimenticare come il caso Russiagate abbia profondamente guastato i rapporti tra Trump e Sessions negli ultimi mesi. Soprattutto dopo che il ministro ha deciso di chiamarsi totalmente fuori dall’inchiesta, lasciando che fosse il suo vice, Rod Rosenstein, ad occuparsene. Un comportamento che il presidente ha considerato un vero e proprio tradimento. E, non a caso, da tempo tra i due i rapporti sono a dir poco tesi. Anche per questo, secondo molti, dietro l’apertura di Trump alla legge sulla marijuana ci sarebbe in realtà la volontà di fare uno sgambetto al ministro della Giustizia, isolandolo in una delle sue battaglie più importanti. Senza poi trascurare come tutto questo venga ad inserirsi in un quadro più complesso. In America, ventinove Stati hanno legalizzato l’uso della marijuana a fini terapeutici, mentre nove lo hanno fatto a fini ricreativi. Il punto è che la droga resta al momento illegale per quanto attiene alla legge federale. Ragion per cui, i procuratori devono di volta in volta decidere come comportarsi. Le zone grige sono quindi numerose. E, su questo fronte, il Dipartimento di Giustizia rischia di ritrovarsi contro non solo il Congresso. Ma anche la Casa Bianca.
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