America

Trump e il bias cognitivo della democrazia

9 Novembre 2016

Ammetto la mia ignoranza — έτσι, δεν γνωρίζω — so di non sapere ma con la maturità sto rimediando ad alcune falle anche piuttosto gravi. Nel caso specifico mi sono imbattuto da poco nella questione dei bias cognitivi, quegli schemi mentali (potremmo chiamarli pregiudizi) che la nostra psiche adotta nell’approccio con la realtà. Se la cosa vi incuriosisce vi rimando ad un lungo e dettagliato articolo apparso su Quartz, nel quale i bias vengono ricapitolati e divisi per sezioni. Casualmente ho ritrovato quest’argomento nell’ultimo romanzo che ho letto  —  “Siamo tutti completamente fuori di noi” di Karen Joy Fowler, un libro che vi invito a leggere perché davvero bello e profondo.

Direte voi: che c’entrano i bias cognitivi con Donald Trump, il tycoon neopresidente degli Stati Uniti? Mi sono servito di questo breve mea culpa iniziale per raccontarvi un’impressione che ho avuto stamattina leggendo le centinaia di commenti, più o meno sdegnati, che hanno attraversato la rete e in particolare Facebook a seguito della sua sorprendente elezione. John Finnis, eminente filosofo del diritto australiano, sostiene che per una società la democrazia non è una condizione sufficiente per essere considerata degna e giusta di essere obbedita. In altre parole quello democratico non è un sistema autorevole perché sostituisce al corretto dualismo bene comune/male comune quello scorretto maggioranza/minoranza. Il passaggio degli stati nazionali da un regime assoluto (oggi diremmo autoritario) ad uno democratico — un processo per niente indolore, che ha mietuto molte vittime e fatto scorrere metri cubi di sangue —ha conosciuto diverse ricette per calibrare il suffragio: onorifico, censitario, solo maschile. Forse presentendo l’imminente risultato elettorale, lo schieratissimo New Yorker ha pubblicato un lungo articolo nell’issue del 7 novembre intitolato The Case Against Democracy, alla quale lettura ovviamente rimando per comprendere le varie posizioni del mondo accademico statunitense sui limiti della democrazia.

Senza addentrarci in particolari troppo tecnici il problema di fondo rimane sempre lo stesso: ha senso limitare il diritto di partecipazione al voto in virtù del fatto che gli ignoranti (o presunti tali) non possiedono un’adeguata consapevolezza delle problematiche inerenti la sfera sociale ed economica? E — mi permetto di aggiungere — quali criteri si debbono introdurre per determinare a chi spetta o non spetta tale diritto? E’ sufficiente un titolo di studio, occorre superare un test attitudinale, un colloquio da uno psicologo o cosa? Più proviamo a definire i contorni della questione, più essa si fa nebulosa e sconfina nei campi dell’arbitrario. Se decidiamo di adottare la democrazia come sistema politico che regola il governo delle istituzioni, allora bisogna prenderla as is, tenendo sempre presente che “è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora” come sosteneva Winston Churchill.

La cosa curiosa che vorrei tuttavia evidenziare, e con questo torno all’incipit del post, è che il bias cognitivo che ci fa percepire la fallibilità dei sistemi democratici si attiva sempre e solo quando la fazione che ci aspettavamo perdesse vince. Il caso Trump fa scuola ed è amplificato dal fatto che il personaggio esce completamente dai binari del protocollo solito. Non solo è rozzo, sessista, xenofobo, ma è stato votato dall’America ignorante, campestre, retrograda — questo è l’apparato giustificativo (il bias, appunto) di chi non si capacita del risultato elettorale. Un meccanismo mentale di una superficialità unica, che trova fondamento nella presunta supremazia della propria opinione su quella altrui. E allora via libera la fiume di discorsi schifati sulla “pancia” dell’elettorato o sulla deriva populista (signora mia!) che ormai ha preso piede anche oltreoceano, dove Trump si unisce agli Orban, ai Le Pen, ai Putin, agli Assad, ai Kim Jong-Un tutti insieme a ballare il girotondo sul crinale dell’inferno. Tutto questo, beninteso, senza che sia ancora accaduto un bel niente di ciò che si paventa. Alla luce di tutto ciò si comprende meglio la didascalia sibillina che sempre il New Yorker dedica all’immagine dell’iconico editoriale odierno di David Remnick: the electorate has, in its plurality, decided to live in Trump’s world.

Che bella cosa la democrazia  —  solo quando ho ragione io però.

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