America
Trump e i giudici: una questione complicata
La corte d’appello di San Francisco ha bocciato il ricorso presentato da Donald Trump, che chiedeva il ripristino del divieto temporaneo per i cittadini di sette paesi musulmani di entrare negli Stati Uniti. L’ordine esecutivo del neopresidente era stato difatti cassato dal giudice James Robart e – proprio per questo – il magnate era ricorso in appello. Un appello conclusosi con un nulla di fatto. E adesso il presidente reagisce, dichiarando di voler portare la questione davanti alla Corte Suprema.
Il clima è incandescente. E questi giorni sono stati veramente convulsi per Trump sul fronte giudiziario. Già all’inizio, il cosiddetto travel ban aveva suscitato una serie di polemiche politiche: da chi lo considerava un provvedimento anti-musulmano a chi lo riteneva autolesionista sul versante della lotta al terrorismo. Secondo Robart, la normativa non risulterebbe giustificata, dal momento che nessun attentato terroristico sarebbe mai stato compiuto contro l’America da individui provenienti da quei sette paesi. Trump non ha preso bene la cosa e ha attaccato Robart direttamente su Twitter, definendolo un “cosiddetto giudice” e lasciando intendere che la magistratura minerebbe la sicurezza nazionale. Una presa di posizione forte, tanto che anche alcuni esponenti repubblicani in linea di principio d’accordo con il travel ban hanno comunque criticato gli strali del neopresidente, invitandolo a non entrare in conflitto con i giudici.
Ieri, poi, la nuova doccia gelata. Con una significativa aggiunta. La corte di San Francisco non si è difatti limitata a ribadire che Trump non avrebbe sufficientemente dimostrato la pericolosità dei cittadini provenienti dai sette paesi. Ma ha tenuto altresì a precisare che “sia fuori discussione che l’autorità giudiziaria abbia il potere di considerare ricorsi costituzionali all’azione dell’esecutivo”. Una neppur tanto implicita risposta alle critiche di Trump, che negli ultimi giorni aveva ripetutamente accusato il potere giudiziario di mettere a repentaglio la sicurezza nazionale per questioni di natura ideologica. Un’affermazione forte, che apre il tema del delicatissimo rapporto tra le esigenze dello stato di eccezione e i principi dello Stato di diritto: una questione che ha attanagliato vari presidenti, da Franklin D. Roosevelt a Richard Nixon.
Tuttavia, al di là del dibattito dottrinale, quanto accaduto evidenzia un problema molto più immediato: il rapporto tra Trump e il potere giudiziario. Una questione spinosa, che raramente in passato si è posta in termini tanto aspri. Come visto, il neopresidente sta attaccando i giudici, accusandoli fondamentalmente di essere politicizzati e di non rispettare la volontà popolare. Ora, ammesso e non concesso che le cose stiano così, la domanda d’obbligo sembra essere una soltanto: ha veramente senso un’accusa di questo tipo? La risposta è complessa e chiama in causa la natura politica tutta particolare di Donald Trump.
Il sistema istituzionale statunitense si contraddistingue per un certo timore verso la volontà popolare. Seguendo i filosofi classici, i padri costituenti ritenevano che la democrazia diretta fosse pericolosa, in quanto potenzialmente foriera di demagogia e autoritarismo. In questo senso, la Costituzione statunitense filtra in maniera molto netta la volontà popolare, tendendo a diluirne l’influenza attraverso una serie di appositi meccanismi. Due in particolare. Innanzitutto il presidente della Repubblica viene scelto attraverso un’elezione indiretta, grazie alla presenza dei voti elettorali. In secondo luogo, i giudici federali (nominati dal presidente attraverso la ratifica del Senato), a tutela di indipendenza, godono dell’inamovibilità (restano, cioè, in carica a vita). E in quest’ottica, anche per quanto riguarda la Corte Suprema, non sono rarissimi i casi di giudici che hanno emesso sentenze in contrasto con il partito cui teoricamente avrebbero dovuto appartenere. Si pensi soltanto, per esempio, che nel 2015 il presidente della Corte, John Roberts, abbia votato in difesa di Obamacare, pur essendo stato nominato da Bush nel 2005. E – sempre restando in tema di Corte Suprema – non è affatto detto che Trump possa vincere il ricorso annunciato. Innanzitutto, attualmente il consesso è costituito da otto giudici: quattro conservatori e quattro liberal. Quindi, ammesso e non concesso che i primi votino a favore del presidente e i secondi contro, si creerebbe uno stallo che di fatto lascerebbe integro il verdetto della corte d’appello. Ma attenzione: perché l’eventuale presenza di Neil Gorsuch (appena nominato da Trump e in attesa di essere confermato dal Senato) potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio per il neopresidente. Al di là della questione dottrinaria, infatti, il nuovo giudice avverte l’esigenza di svincolarsi dall’ingombrante figura di Trump, per rimarcare la propria autonomia. E – non a caso – lo ha già criticato nei giorni scorsi per il suo linguaggio duro verso i magistrati.
Alla luce di tutto questo, costituzionalmente parlando, la critica di non rispettare la volontà popolare è senz’altro vera ma non coglie nel segno, visto che il ruolo dei giudici nel sistema statunitense è proprio quello di limitare il potere investito dal basso. In questo senso, la tradizione liberale americana ha creato una serie di contrappesi proprio per arginare la forza di una volontà popolare potenzialmente straripante. Ed è proprio qui che nasce il problema. La natura politica di Trump ha sempre presentato una venatura profondamente bonapartista: il contatto diretto con le masse, l’assenza di mediazione e la tendenza a una retorica plebiscitaria. Senza poi dimenticare la potentissima carica anti-establishment incarnata dal magnate, cui si è costantemente legata una critica piuttosto aspra del professionismo politico. E’ quindi abbastanza evidente che l’ascesa di Trump rappresenti un elemento molto stridente nei confronti del sistema istituzionale statunitense, per come è stato concepito. E – inutile negarlo – è stato proprio questo carattere a determinare in gran parte la sua vittoria elettorale lo scorso novembre. Con ogni probabilità quindi Trump ritiene che alzare i toni possa continuare a giovargli come avvenuto in passato.
Il problema è che però ormai la campagna elettorale è finita. E, per quanto le esigenze di immagine e comunicazione possano in parte giustificare il mantenimento dello scontro con l’establishment, l’efficienza nel governo è un’altra cosa. Non basta firmare ripetutamente ordini esecutivi, così come non basta fare sparate. Perché tanto gli ordini esecutivi quanto le sparate devono avere poi un seguito, se si vuole concretezza. E la concretezza non si produce mettendocisi costantemente contro l’ordine istituzionale che si dovrebbe governare. Banalmente la Costituzione impone dei limiti. Possiamo discutere se siano giusti o sbagliati: ma ci sono. E all’interno di quei limiti l’azione di governo deve svilupparsi pragmaticamente. Perché qui il problema non è di principio ma drammaticamente concreto. Criticare i giudici di essere politicizzati non è sbagliato: è inutile. Nessuno nega che Trump sia circondato ovunque da nemici che aspettano il primo passo falso per farlo fuori. Ma voler tenere costantemente alto il livello di scontro rischia di rivelarsi un alibi per coprire l’incapacità di governare. E, per una sorta di beffarda eterogenesi dei fini, il pericolo è che lo spirito imprenditoriale da uomo del fare possa celare alla fine una profonda impotenza politica. Per questo Trump dovrebbe selezionare le sue battaglie, intervenendo con decisione dove può: al di là di ogni velleitaria lotta contro i mulini a vento. Altrimenti si scade nell’invettiva sterile e nel vittimismo. Ma non è per questo che gli americani lo hanno eletto.
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