America
Trump è di destra?
Donald Trump ha perso ieri nel District of Columbia (in cui ha vinto Marco Rubio) e nel Wyoming (in cui ha trionfato Ted Cruz), registrando forse i risultati peggiori da quando è iniziata questa campagna elettorale. In entrambe le competizioni si è collocato terzo, riuscendo a racimolare in tutto appena un delegato.
Certo, non si tratta propriamente di una catastrofe, vista l’importanza sostanzialmente esigua degli Stati in questione. E risulta per questo anche probabilmente prematuro parlare di un campanello d’allarme in vista di martedì prossimo, quando si voterà in Florida e Ohio. Ciononostante, la giornata di oggi una piccola riflessione la offre, soprattutto guardando al Wyoming. Il cosiddetto Cowboy State non si configura difatti soltanto come un territorio storicamente ultraconservatore. Ma il sistema elettorale lì adottato è quello del caucus: l’assemblea chiusa degli attivisti di partito, che tendenzialmente favorisce i candidati duri e puri. Ora, il fatto che proprio qui Trump abbia preso una delle peggiori batoste elettorali della sua corsa, dovrebbe farci riflettere. Tanto più che il risultato di oggi conferma ulteriormente la strutturale difficoltà del miliardario newyorchese nell’imporsi in seno ai caucus. Se si escludono le eccezioni del Nevada, delle Hawaii e del Kentucky (dove ha vinto d’un soffio), Trump ha difatti perso in tutti gli altri: Iowa, Maine, Alaska e Wyoming sono andati al senatore texano Ted Cruz, mentre il Minnesota se lo è aggiudicato Rubio. Il miliardario appare andare di contro particolarmente forte in competizioni legate al sistema delle primarie (basta citare i soli casi del New Hampshire e del Michigan).
La domanda che allora sembrerebbe sorgere naturale è: ma siamo veramente sicuri che Donald Trump sia di destra? Siamo veramente sicuri che dietro le solite manfrine ormai tipiche dei dibattiti repubblicani sullo status di conservatore del magnate non ci sia qualcosa di sostanziale? Insomma, Donald Trump è veramente l’ultraconservatore che viene dipinto soprattutto in Europa?
Probabilmente no. E questo non per dire che il miliardario sia di sinistra. Anzi, forse l’errore sta proprio nel cercare di imbrigliarlo a tutti i costi dentro un’etichettatura ideologica che è lui stesso il primo furbescamente a rifuggire. Per quanto contro-intuitiva questa affermazione possa apparire, guardiamo ai fatti. Non solo Trump perde molto spesso nei caucus (dove storicamente è l’elettorato ultraconservatore ad esprimersi) ma anche alcune delle sue posizioni programmatiche si allontanano non poco dall’ortodossia conservatrice repubblicana, che affonda le sue radici nel reaganismo. A partire dalle politiche commerciali: Trump è difatti un convinto protezionista, in barba a tutta la precettistica reaganiana sul libero scambio. E recenti articoli mettono in luce un crescente timore dalle parti di Wall Street, per una sua eventuale conquista della Casa Bianca, proprio perché si teme l’avvio di guerre commerciali con la Cina e il Messico. Non parliamo poi della politica estera: Trump dichiara di voler gettare alle ortiche anni di interventismo repubblicano, ritirando l’esercito americano dalle zone calde (soprattutto in Medio Oriente). Anche in bioetica poi la situazione non è chiarissima: dopo il voltafaccia sull’aborto, continua a mantenere un giudizio ambiguo sulla onlus pro-choice Planned Parenthood, mandando così in bestia non pochi esponenti del GOP.
E, al di là delle posizioni più strutturali, il miliardario ha anche attenuato alcune sue tesi classiche. Sulla sanità, è passato da una strenua opposizione verso l’Obamacare al sostegno di un intervento statale corposo nel settore: “Non lascio morire la gente per strada”, ha dichiarato recentemente contro il rivale Ted Cruz. Sull’immigrazione, poi, si è ammorbidito sulla questione dei visti: prima voleva diminuirli ora vuole aumentarli per i lavoratori specializzati. A questo si aggiunga il fatto che si circondi sempre più di personaggi storicamente legati al moderatismo repubblicano (come l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, o il governatore del New Jersey, Chris Christie). Anzi, sembrerebbe proprio che la virata al centro del magnate risulti collegata al rafforzamento del senatore texano, Ted Cruz. Perché è qui il nodo della questione. Il vero rappresentante dell’universo ultraconservatore oggi è proprio Cruz, che si è intestato le battaglie della destra evangelica, riuscendo a compattare contemporaneamente alcune frange libertarie vicine al Tea Party.
E’ Cruz, cioè, l’autentico erede di Rick Santorum e Mike Huckabee, ed è al momento l’unico candidato che riesce coerentemente a combinare la difesa della destra religiosa con il cieco fideismo di svariate correnti anti-Stato. Ma attenzione: questo non significa che evangelici e libertari siano suo esclusivo bacino elettorale. Trump sta difatti riuscendo a pescare copiosamente anche da lì, come hanno mostrato i risultati in Virginia e Georgia. Sennonché c’è comunque una differenza fondamentale: l’elettorato di Cruz è più ideologizzato, conservatore nell’anima e quindi politicamente più motivato. L’elettorato di Trump invece è “arrabbiato” e mosso maggiormente dai malumori anti-sistema. Da questa differenza discende un dato decisivo: mentre Cruz può contare su uno zoccolo duro più compatto ma meno estendibile, Trump poggia su un mondo fortemente variegato, esprimendo così la capacità di attrarre voti trasversali e meno ideologizzati.
In tal senso, il magnate sembra essere capace di pescare tra gli evangelici e tra i laici, tra i repubblicani e tra i democratici. Il minimo comun denominatore qui non è difatti dottrinario ma esistenziale: una rabbia crescente dovuta primariamente alla crisi economica e al crollo dei posti di lavoro (come hanno mostrato gli inediti risultati elettorali in Michigan, a destra come a sinistra). In questo senso, politicamente la figura di Trump viene sempre più percepita in America come quella di un maverick: radicale, sì, ma trasversale e capace di intercettare chiunque, vista la sua camaleontica abilità nell’effettuare capriole programmatiche e la forza retorica del personaggio che incarna. Proprio per questo, mentre il palcoscenico repubblicano sembra man mano avviarsi verso un duello tra Cruz e Trump, è il magnate a rappresentare ormai la sinistra del partito, strizzando al contempo l’occhio oltre le mura repubblicane, nella speranza di allargare ulteriormente un base al momento in espansione. Una base che – come riportano alcune rilevazioni di Politico – non si ferma ai consistenti nugoli di buzzurri razzisti col cappellino “Make America Great Again” ma che sembrerebbe costituita anche da laureati ed elettori storicamente vicini al centro. Ed è allora questa l’incognita del futuro: in un contesto in cui le candidature di Rubio e Kasich risultano quasi irrimediabilmente compromesse, l’establishment repubblicano ha due possibilità. O una manovra di palazzo, per imporre ex machina il Mitt Romney di turno, o sfidare pericolosamente la sorte: e puntare su un ticket Trump-Cruz, che sappia parlare al centro e alla destra. Fantapolitica? Probabile. Ma le alternative quali sono?
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