America
Trump e Clinton: due Americhe ai ferri corti
Stati Uniti: due candidati alla Casa Bianca. Uno, serio, preparato, competente: un esempio di raffinatezza politica nella sua aristocraticità composta e innervata di esperienza. L’altro, rozzo, popolaresco, rude, dalla retorica violenta: un mezzo impresentabile, triviale e vagamente zotico. No, non stiamo parlando del 2016 ma del 1828: precisamente del serrato scontro tra John Quincy Adams ed Andrew Jackson. Il primo: presidente uscente, esponente dell’establishment politico dell’epoca, aristocratico ed ex segretario di Stato durante l’amministrazione Monroe. Il secondo, eroe di guerra, fondatore del partito democratico e rappresentante di una borghesia emergente irrequieta, affarista e dinamica. La campagna elettorale è durissima e si combatte a colpi di insulti invero poco eleganti. Jackson vince alla grande. Lo scoramento per l’establishment è profondo. Un senso di fine del mondo pervade la Casa Bianca durante la cerimonia di insediamento del nuovo presidente. L’universo dell’aristocrazia colta, illuminista, distinta che aveva portato l’America a ribellarsi all’Inghilterra tramonta. E’ finita un’epoca. E non è chiaro ancora che cosa riserverà il futuro.
Una situazione poi non molto dissimile da questo 2016, con una campagna elettorale assolutamente bizzarra, in cui nuovamente si fronteggiano due visioni antitetiche di ciò che gli Stati Uniti oggi dovrebbero essere. Donald Trump e Hillary Clinton non rappresentano soltanto due partiti rivali, ma prospettive diametralmente opposte su numerose questioni profondamente rilevanti. Una divisione netta, che emerge chiaramente anche dall’immagine e dalla narrazione che ciascuno dei due sta cercando di dare di sé. Una divisione che si fa sempre più trasversale ai due principali partiti e che potrebbe proprio per questo ridisegnare gli equilibri interni all’agone politico statunitense.
Populista, guascone e irruento, Donald Trump promette di picconare un sistema politico corrotto, proponendo una palingenesi in grado di restaurare l’antica forza americana. Al netto di un programma abbastanza confuso e spesso aleatorio sulla concretezza delle soluzioni avanzate, il fulvo magnate si propone di incarnare innanzitutto un tipo antropologico: un potente miscuglio tra Clint Eastwood e John Wayne, che oscilli costantemente tra un celodurismo tribunizio e un’aggressività alla Harry Callaghan. Cresciuto come un maverick all’interno di una rissosa pletora di candidati repubblicani, Trump rivendica con orgoglio di essere riuscito ad emergere tra le minacciose maree degli attacchi incrociati e delle sante alleanze man mano costituitesi contro di lui. Rivendica, sbandiera e ostenta quella grinta che gli ha permesso di resistere titanicamente contro tutto e tutti. E pazienza se i media e l’intellighenzia lo dipingono come un demagogo furioso o un esaltato rubagalline, cui rimproverare slogan politicamente scorretti! Lui se ne frega: si sente come John Chisum, il pioniere vaccaro che lotta strenuamente per difendere i suoi possessi dallo strapotere finanziario che vorrebbe distruggerlo. Non sarà del resto un caso che la figlia di John Wayne, Aissa, abbia garantito che, se suo padre fosse vivo, avrebbe certamente votato per lui e per il suo progetto patriottico di far tornare l’America ad essere grande. Trump lo sa e spinge sull’acceleratore. Gli americani prima di tutto, per gli altri si vedrà.
Si tratta di un capovolgimento profondo in seno a un partito repubblicano che – dopo trent’anni pressoché incontrastati di reaganismo – vede oggi offuscarsi la stella della Reagan Revolution, mentre il suo pantheon inizia lentamente a sprofondare. Anche per questo molti dei papaveri del GOP gridano all’ortodossia tradita, allo scandalo di un Trump dimentico dell’autentica tradizione repubblicana: un Trump che starebbe letteralmente scardinando il partito di Lincoln, per rinserrarlo nei lacci del radicalismo populista. I mostri sacri del liberismo e dell’interventismo bellico, tanto cari alla galassia neoconservatrice, sono oggi scaraventati dal miliardario nello sgabuzzino delle anticaglie inservibili. L’America deve pensare prima a sé stessa, deve piantarla di fare il poliziotto del mondo e soprattutto tutelarsi da un globalismo economico che non ha fatto altro se non distruggerne i posti di lavoro. Un isolazionismo a dir poco radicale che non si vedeva dai tempi di Herbert Hoover. Un isolazionismo che trova la sua forza nella classe media ridotta allo stremo, nell’elettorato di quella Rust Belt che più di altre aree geografiche ha subìto gli effetti della crisi economica e che considera gli accordi commerciali internazionali come una iattura da cancellare con ignominia. Quell’elettorato impaurito, che chiede sicurezza e invoca un presidente law and order in stile Rudy Giuliani.
In questo attacco confuso ma efficace ai crismi della vecchia America, la vecchia America risponde facendo quadrato attorno a Hillary Clinton. Potente e borbonica, l’ex first lady è difficoltosamente emersa da primarie durissime che le hanno consegnato un partito democratico spaccato tra un’ala moderata e una radicale. Archiviata la concorrenza sinistrorsa di Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, Hillary sta dunque cercando di prendere in mano la situazione, imponendo all’asinello una linea tendenzialmente centrista, che le consenta di catalizzare i voti dei moderati terrorizzati dall’ascesa di Trump. Una strategia molto simile a quella adottata dal marito Bill nel 1992: puntare al centro, conquistando i moderati (tanto democratici quanto repubblicani). La stessa scelta del senatore centrista Tim Kaine come proprio running mate testimonia il sentiero che ha in mente di seguire Hillary.
In tutto questo, l’ex first lady si gioca la carta della restaurazione della Third Way clintoniana, strizzando ambiguamente l’occhio alle frange neocon un tempo accanite sostenitrici di George Walker Bush. Perché alla fine questo è il piano di Hillary: presentarsi come baluardo razionale al dilagare del caos tendenzialmente no-global incarnato da Trump. Puntare sulla pregressa esperienza di donna di governo, offrendosi come bastione di un libero mercato e di una moralità interventista che permettano agli Stati Uniti di giocare ancora una volta un ruolo centrale in seno allo scacchiere internazionale, al di là di ogni gretto provincialismo. La vecchia destra americana, per intenderci, che – ormai trasversalmente alle compagini tradizionali – vede in Hillary il male minore per cercare di continuare ad esistere, davanti a un elettorato sempre più radicalizzato e stufo delle diatribe in politica estera.
I Clinton cercano così di rilanciarsi attraverso un discorso classico di ottimismo, fiducia nel futuro e politica di potenza, in grado di ricalcare i fondamenti dell’American Dream e che guardi al domani con orgoglio e determinazione. Trump, di contro, avanza una prospettiva apocalittica: accelerare lo sfaldamento di un sistema politico marcio, facendo leva sulla rabbia popolare. “Rabbia”, questa la parola d’ordine del miliardario, che ha intuito come settori sempre più ampi dell’elettorato statunitense non vogliano più sentir parlare di ottimismo e di progresso: parole da molti considerate vuote. Una mera retorica cui rispondere con il furore dell’insoddisfazione e della paura. Il senso si capovolge e la differenza si comprende anche a livello scenografico. Se Hillary ha scelto come colonna sonora della propria campagna Fight Song per esprimere un’anima di lotta verso un futuro migliore, Trump punta invece sul catastrofismo di Skyfall.
Perché alla fine è proprio questo il senso del trumpismo: una prospettiva apocalittica, che vede la demolizione del presente come condizione indispensabile per una palingenesi futura. Una palingenesi che resta fumosa, aleatoria, a tratti inconcludente. Una vaghezza tuttavia che alla fine non intacca più di tanto la popolarità del magnate, che proprio della rabbia verso il presente fa il suo vigoroso cavallo di battaglia. In questo senso vanno lette le sue durissime critiche alla politica estera di George Walker Bush (guerra in Iraq in primis) e quelle alla figura della stessa Hillary Clinton. E’ la lotta contro lo status quo che accomuna paradossalmente il miliardario newyorchese al messaggio radicale dell’ex candidato socialista, Bernie Sanders: anche lui apocalittico, anche lui in assoluta rotta di collisione col sistema imperante. Un dato singolare, che evidenzia come una parte non irrilevante del suo elettorato potrebbe votare per Trump a novembre: una situazione fotografata già da alcuni sondaggi.
Il senso di speranza che per decenni è stato l’autentico motore della politica americana subisce oggi uno scacco fortissimo, mentre la polarizzazione elettorale tende a farsi più profonda che mai. Trump soffia sul fuoco della frustrazione sociale, accentuando divisioni e tensioni. Hillary si propone di salvaguardare un mondo che sembra essere sempre più in minoranza nel Paese. Una vittoria del magnate a novembre potrebbe seriamente preludere a scenari inediti. E’ pur vero che – con ogni probabilità – non potrebbe mettere in pratica tutti i suoi programmi (Gerald Ford amava ripetere che il presidente degli Stati Uniti può al massimo decidere quando andare in bagno): ma è altrettanto indubbio che un’eventuale amministrazione Trump esemplificherebbe in modo inequivocabile un radicale cambio di mentalità da parte dell’elettorato americano. Un cambio di mentalità a ben vedere già preavvertito con le due vittorie di Barack Obama nel 2008 e nel 2012. Ma che adesso potrebbe diventare ben più deciso ed estremo, con conseguenze difficilmente prevedibili soprattutto sul fronte della politica estera.
Nel 1828, gli Stati Uniti si trovarono a scegliere tra due personaggi antitetici come Adams e Jackson, rappresentanti di mondi completamente diversi e antagonisti. Oggi, nel 2016, l’America è davanti a un bivio simile. Perché, al di là dei singoli candidati da valutare, è posta dinanzi a un’alternativa cruciale. Due sono le Americhe che si scontrano. E il problema per il nuovo presidente sarà di ritrovarsi con una nazione spaccata in modo feroce, drammatico, manicheo. Forse insanabile. Come ai tempi della Guerra Civile.
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