America
Trump contro Trump: cosa cambia dopo l’attacco alla Siria
L’attacco statunitense a Bashar al-Assad ha evidenziato un cambio di rotta nella politica estera di Donald Trump. Eletto a novembre sulla scia di un programma sostanzialmente aperturista verso la Russia, il neo presidente ha sferrato un colpo non di poco conto ad uno dei principali alleati del Cremlino in Medio Oriente. E gli effetti si sono visti subito. Nel giro di poche ore, si è ricompattato il tradizionale asse atlantico (dall’Europa occidentale al Giappone, passando per Israele): gli alleati storici, in passato spesso bistrattati da Trump, si sono nuovamente uniti sotto il vessillo dello Zio Sam. Anche sul fronte interno, poi, gli avversari del magnate sembrano improvvisamente essersi schierati dalla sua parte.
Falchi interventisti, neoconservatori, nemici di Putin: tutti hanno lodato l’azione del neo presidente, laddove i suoi storici sostenitori non sembrano poi troppo felici di quanto accaduto. Insomma, nel giro di ventiquattr’ore, gli equilibri politici americani e internazionali si sono capovolti e, da isolazionista un po’ becero, Trump sembra essersi improvvisamente trasformato in un novello Harry Truman. Che cosa è successo? Come si spiega tutto questo? Era veramente così imprevedibile un simile capovolgimento?
Innanzitutto, partiamo da un dato. Storicamente, non è certo la prima volta che un presidente americano, salito al potere, sconfessi nettamente quanto promesso in campagna elettorale. Nel 1916, Woodrow Wilson ottenne la rielezione, promettendo che gli Stati Uniti non avrebbero mai preso parte alla Prima Guerra Mondiale. Tuttavia, pochi mesi dopo l’insediamento, entrò nel conflitto. Nel 2000, George Walker Bush condusse una campagna elettorale all’insegna dell’isolazionismo, criticando profondamente l’interventismo bellico promosso da Bill Clinton e Al Gore. Ciononostante, dopo gli attentati dell’11 settembre, divenne uno dei presidenti più interventisti della Storia. Questi due esempi mostrano quindi che spesso le circostanze portano i presidenti ad agire in contraddizione con quanto promesso sotto elezioni. Ebbene, quali sono le circostanze che hanno spinto Trump nella nuova direzione?
Il disgelo verso Mosca è da sempre stato uno dei punti centrali del programma di Trump. Un punto tuttavia mai granché digerito da pezzi cospicui dell’establishment statunitense: non soltanto a livello di intelligence ma anche sotto il profilo politico. Non sono pochi i senatori repubblicani che hanno nei mesi scorsi criticato aspramente Trump per le sue aperture verso Putin: da John McCain a Marco Rubio, passando per Lindsey Graham. In questo contesto, è andato sempre più montando lo scandalo Russiagate: l’accusa, secondo cui pezzi dello staff di Trump avrebbero intrattenuto rapporti opachi con il Cremlino. Cremlino che, a sua volta, avrebbe interferito nelle elezioni statunitensi per screditare la candidata democratica, Hillary Clinton. Anche in forza di ciò, negli ultimi mesi, alcuni fedelissimi del neo presidente sono stati letteralmente silurati: dall’ormai ex National Security Advisor, Michael Flynn, al controverso stratega Steve Bannon, arrivando al ministro della Giustizia, Jeff Sessions, il cui destino politico resta tuttora appeso a un filo. Tutti profili profondamente favorevoli al disgelo con Putin. Profili che, tuttavia, non solo sono stati (o rischiano di essere) allontanati. Ma che sono poi risultati sostituiti da figure di tutt’altro orientamento ideologico: basti pensare che il nuovo National Security Advisor, il generale McMaster, sia uno storico critico della politica di Putin in Crimea.
In questo senso, è facile notare come gli equilibri interni all’amministrazione si siano via via spostati in direzione anti-russa, rafforzando figure come il segretario alla Difesa, James Mattis, e il direttore della CIA, Mike Pompeo. Tutto questo, mentre il segretario di Stato, Rex Tillerson, da amico di Putin si è man mano spostato su posizioni critiche verso il Cremlino. Alla luce di tutto questo, la mossa anti-siriana di Trump stupisce fino a un certo punto. Perché sono mesi che il processo di disgelo verso Mosca appare in salita e solo Henry Kissinger sembra ormai rimasto pubblicamente a difenderlo, senza eccessivi risultati.
Detto questo, occhio a facili automatismi. Non è detto infatti che l’attacco missilistico contro Assad andrà a compromettere definitivamente ogni apertura verso il Cremlino. Anche perché è stato reso noto, che i russi sarebbero stati avvertiti per tempo prima del bombardamento. Un fatto un po’ strano che, secondo alcuni, celerebbe l’intento americano di mantenere in piedi i rapporti con Putin. Un paradosso? Certamente sì. Un paradosso che evidenzia tutte le contraddizioni interne all’azione politica di Trump: un’azione caotica, confusa e talvolta velleitaria. In altre parole, al di là di quanto potrebbe sembrare, il recente cambio di rotta evidenzia una profonda assenza di risolutezza. Contrariamente a come viene raccontato soprattutto in Europa, Trump sembra difatti sempre più lontano dall’essere un politico decisionista. Non soltanto resta spesso sospeso tra posizioni contraddittorie ma finisce anche altrettanto spesso impallinato tra le faide interne al partito e alla stessa amministrazione.
La domanda non è quindi tanto quale linea politica Trump deciderà di sposare. No, la domanda è ancora più radicale: il magnate sarà capace di portare avanti una linea politica coerente? Questo è infatti il problema. Ancor prima di avventurarsi sulle – pur legittime – discussioni ideologiche tra liberismo, protezionismo, isolazionismo e interventismo, ciò che dovrebbe essere chiarito è: Trump ha o no un minimo di visione politica? Se sì, riuscirà ad incarnarla? Oppure sarà destinato a restare vittima del suo stesso pragmatismo, perdendosi nel mezzo di decisioni estemporanee e contraddittorie? Perché alla fine questo è il rischio: che il presidente eletto per rivoluzionare l’America finisca nel peggiore dei modi. Affogando in mezzo a un guado.
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