America

Ecco perché, dopo la sconfitta in Alabama, Trump è nei guai

14 Dicembre 2017

La recente sconfitta del candidato repubblicano, Roy Moore, nella corsa per il seggio senatoriale dell’Alabama non è esattamente una buona notizia per Donald Trump. Erano venticinque anni che un democratico non entrava al Senato in rappresentanza del cosiddetto Yellowhammer State, mentre è dal 2003 che l’elefantino occupa stabilmente la poltrona governatoriale dello Stato. Senza dimenticare che è dal 1980 che, alle elezioni presidenziali, l’Alabama voti puntualmente a favore del candidato repubblicano: lo stesso Trump, lo scorso anno, ha sopravanzato lì Hillary Clinton di quasi trenta punti percentuali.

Alla luce di tutto questo, il terremoto della sconfitta di Moore rischia di mettere in difficoltà il presidente americano. Del resto, si era trattato sin da subito di una candidatura complicata. Noto per le sue posizioni ultraconservatrici (lo chiamano addirittura l’ayatollah dell’Alabama), Moore era riuscito, in occasione delle primarie repubblicane locali, a battere il candidato “istituzionale” Luther Strange: un candidato che, è bene ricordarlo, era stato appoggiato all’epoca dallo stesso Trump proprio per cercare di ricucire i propri tortuosi rapporti con l’establishment dell’elefantino. D’altronde, proprio a causa di ciò, si era attirato gli strali della destra radicale, guidata dall’ex stratega Steve Bannon. La situazione si è poi fatta piuttosto difficile. Moore è stato accusato di molestie sessuali e parte cospicua delle alte sfere repubblicane gli hanno ritirato l’endorsement, contrariamente a Trump che, invece , ha scelto di sostenerlo. E adesso i grattacapi non sono pochi.

Innanzitutto in termini di immagine, visto che – come detto – il Grand Old Party ha perso in un suo feudo. In secondo luogo, c’è un problema parlamentare. Queste elezioni senatoriali sono avvenute in conseguenza delle dimissioni del senatore repubblicano, Jeff Sessions, che ha dovuto lasciare il seggio a seguito della sua nomina a ministro della Giustizia. Con la vittoria dei democratici, la già risicata maggioranza repubblicana al Senato si assottiglia ancora di più, passando da 52 seggi a 51 (su un totale di 100). In forza di ciò, la già difficile governabilità riscontrata da Trump rischia adesso di accentuarsi maggiormente, ponendo una seria ipoteca sulle varie riforme messe in agenda dal presidente (a partire dall’abolizione di Obamacare).

E fitte nubi paiono  adesso addensarsi sulla stessa riforma fiscale, che sembrava ormai cosa fatta. Nonostante sia stata approvata da entrambi i rami del Congresso, i testi licenziati dalle due camere risultano diversi su svariati punti: ragion per cui è necessario arrivare ad un’armonizzazione per produrre un documento unico. E proprio al Senato, oggi, i numeri sembrano in forte rischio: il senatore John McCain si trova attualmente in ospedale a causa degli effetti dei trattamenti per la cura del suo tumore al cervello, mentre Marco Rubio e Mike Lee hanno espresso serie riserve sulla riforma. E, qualora la battaglia sul fisco dovesse fallire, per Trump le cose potrebbero mettersi veramente male. Senza poi dimenticare che, tra meno di un anno, si terranno le elezioni di medio termine, con cui si rinnoverà la totalità della Camera e un terzo del Senato. Se i democratici dovessero conseguire un buon successo (strappando una camera ai repubblicani) potrebbero mettere i bastoni tra le ruote alla politica di Trump, imbastendo magari un processo di impeachment.

Eppure attenzione: perché la situazione potrebbe rivelarsi ben più complessa. Innanzitutto, le pur importanti vittorie conseguite recentemente dai democratici (dall’Alabama alle elezioni governatoriali in Virginia e New Jersey) non indicano, per ora, una vera inversione di tendenza per l’asinello: un partito che, al momento, versa ancora in uno stato profondamente confusionale, non riuscendo a trovare una coesione interna e una linea chiara da seguire. In secondo luogo, non dimentichiamo un dato storico: solitamente i presidenti in carica perdono le elezioni di medio termine (è successo, per esempio, a Obama, Bush, Clinton e Reagan). In terza istanza, bisogna tener conto del fatto che ancora non si sia votato in territori dove risiede lo zoccolo duro dell’elettorato di Trump: quella classe operaia impoverita (e arrabbiata) particolarmente numerosa nell’area della Rust Belt. E’ lì infatti che si dovrà pesare la vera consistenza della forza politica espressa dal miliardario. Infine, il caso Moore segnerà adesso un riequilibrio all’interno del Partito Repubblicano e della stessa amministrazione Trump. Il grande sconfitto per quanto accaduto in Alabama è infatti Steve Bannon: quel Bannon che è stato il principale sponsor di Moore e che sta cercando di presentare candidature per ostacolare quasi tutti i senatori repubblicani che, nel 2018, cercheranno la rielezione. La cavalcata dell’ex stratega ultraconservatore subisce dunque adesso una brusca battuta d’arresto. E la prima ad avvantaggiarsi di questa situazione potrebbe essere proprio la figlia di Trump, Ivanka, da sempre a capo di una corrente liberal in seno allo staff presidenziale. Paradossalmente il presidente potrebbe uscire rafforzato dal fallimento di Moore. Potrebbe, cioè, riuscire ad allentare le influenze dell’estrema destra. E cercare di governare con maggioranze variabili che gli permettano un’azione di governo pragmatica, superando veti incrociati e franchi tiratori. Ci riuscirà?

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