America
Trump 2.0: una coalizione divisa tra nazionalisti e tecno-oligarchi
Il secondo mandato di Trump svela un’America dominata da una coalizione esplosiva, in cui nazionalisti radicali e oligarchi tecnologici si contendono il futuro del potere, con posizioni inconciliabili che minano la stabilità della maggioranza e la tenuta della democrazia.
“L’età d’oro d’America inizia ora” ha dichiarato Trump nel discorso inaugurale della quarantasettesima presidenza americana, con l’obiettivo di rendere l’America di nuovo grande a suon di ordini esecutivi che identificano subito i nemici: coloro che non si riconoscono nei due generi, gli immigrati illegali e tutte le altre nazioni che si approfittano degli USA. L’intensa promulgazione di ordini esecutivi è una pratica comune all’inizio di un mandato: una sorta di rete da pesca a strascico lanciata in più direzioni, mirata a trasmettere un senso di indaffaratezza, pur consapevoli che non tutte le iniziative saranno attuabili.
Parte di questa irrealizzabilità potrebbe derivare da una spaccatura irreversibile del fronte parlamentare, per ora ancora coeso intorno al Presidente-eletto. Tuttavia, questa amministrazione si distingue dal primo mandato, caratterizzato da una netta linea di demarcazione tra sostenitori e oppositori di Trump. Da una parte, c’erano gli elettori (provenienti soprattutto dalle aree rurali ed industriali) che avevano votato il super-imprenditore per protesta contro l’establishment. Dall’altra parte, resisteva la stessa classe politica repubblicana che, definendosi gli “adulti nella stanza”, cercava di fare da contrappeso allo stile impulsivo e alle decisioni divisive del tycoon.
In questo secondo mandato, la situazione è profondamente cambiata e non lascia spazio alla titubanza: la fedeltà a Trump è ormai una conditio sine qua non per operare nel Partito Repubblicano. Tuttavia, questa lealtà non è uniforme ed è destinata a scontrarsi sempre più con le due anime della coalizione. Restano i veterani della destra estrema nazionalista e reazionaria, rappresentata da figure come Steve Bannon, ex consigliere strategico del Presidente e dirigente del canale di contro-informazione Breitbart News. A questi si è affianca la recente avanzata dell’intelligentia della Silicon Valley, con magnati come ElonMusk (SpaceX, Tesla, X), Mark Zuckerberg (Meta), Peter Thiel (PayPal) o Marc Andreeseen (del primissimo web browser Mosaic). Inizialmente distanti dall’universo trumpiano, ne sono diventati ferventi sostenitori, contribuendo con donazioni e visibilità mediatica.
Se finora nazionalisti e tech bros si sono allineati sull’obiettivo comune di vincere le elezioni, proiettando le proprie aspettative sulla nuova amministrazione, ora l’incompatibilità di vedute inizierà a pesare. Il terreno di scontro si delinea in due macrotemi: economia e immigrazione. I nazionalisti spingono per una riduzione delle tasse sulla classe lavoratrice e un aumento per i ricchi, mentre Trump ha storicamente favorito tagli fiscali per le élite. La Silicon Valley, dal canto suo, chiede la deregolamentazione dell’economia per favorire un capitalismo sfrenato. Intanto, la nuova amministrazione ha annunciato la guerra dei dazi e il dietrofront sugli incentivi dell’era Biden per energie rinnovabili e auto elettriche, una decisione che sicuramente non piacerà al padrone di Tesla, che fa affari con la Cina.
In passato, Trump aveva descritto le criptovalute come una truffa contro il dollaro, mentre ora dice di volerle rendere il centro della politica monetaria americana, scontentando gli oppositori della società cashless. È proprio ispirata a una criptovaluta la sigla DOGE, con cui ci si riferisce al Dipartimento di Efficienza Governativa, gestito da Musk con l’incarico di riorganizzare la burocrazia federale e ridurne la spesa, soprattutto a discapito dei più svantaggiati.
Questi ultimi, se hanno votato per Trump, sono per la maggior parte convinti che l’America tornerà grande cacciando tutti quelli che americani non sono, né potranno più avere l’opportunità di diventarlo: insomma, niente più immigrati. Trump ha già dichiarato lo stato di emergenza al confine meridionale col Messico e cercato di sospendere il diritto costituzionale dello ius soli, esteso anche a chi nasce da genitori arrivati illegalmente. Con una retorica più simile alla sinistra, i magnati del tech hanno accusato gli ormai compagni di partito di essere “razzisti odiosi ed impenitenti”, facendo pressione per semplificare l’ottenimento di visti H-1B per gli immigrati altamente qualificati, indispensabili per i loro business.
Il tema della famiglia è un’altra questione potenzialmente esplosiva. La destra nazionalista si arrocca su una concezione tradizionale della famiglia come antidoto contro l’immoralità dell’era moderna, che non trova corrispondenza nell’esperienza di chi, come Musk, conta una dozzina di figli da tre donne o, per dirla tutta, dello stesso Trump, padre per cinque volte e marito per tre, già condannato per avere comprato il silenzio della pornoattrice Stormy Daniels con cui aveva avuto rapporti sessuali. Sebbene sul fronte dei diritti il Presidente abbia assecondato l’ossessione di parte del suo elettorato per il binarismo di genere, ha evitato di sostenere un divieto federale sull’aborto, lasciando di fatto spazio alle politiche dei singoli stati.
Originariamente parte della cultura woke che ora rinnegano, personaggi come Musk e Zuckerberg sfruttano opportunisticamente la lotta al politicamente corretto, usando la scusa della “censura” per ridurre i costi della moderazione sui loro social. Ciò che certamente apprezzano nei ruoli di genere è l’appello alla “energia mascolina”, che secondo il padrone di Meta dovrebbe permeare il corporativismo americano, rivendicando una realtà in cui i maschi al potere sono liberi di essere aggressivi senza mai subirne le conseguenze. La “broligarchia” è il nuovo assetto politico di Washington, dominato dai guru della tecnologia, indifferenti o addirittura ostili alla democrazia, che ne disprezzano la regole con la stessa arroganza con cui hanno abbandonato università di prestigio per fondare le proprie aziende. Il principale elemento di comunanza con Trump è la politica dell’impunità, che si afferma quando definisce patriottismo gli atti terroristici di Capitol Hill o intelligenza l’evasione fiscale.
A chiamarli oligarchi non è stato solo Biden nel suo discorso di addio, ma anche Steve Bannon, emblema del nazionalismo MAGA, esprimendosi contro il “tecnofeudalesimo” di coloro che si stanno comprando un posto alla Casa Bianca, mettendo i propri strumenti tecnologici a disposizione di una politica persecutoria nei confronti di chi la pensa diversamente e ribattezzata da alcuni “McMuskism” ossia una “maccartismo sotto steroidi”.
Nei prossimi quattro anni, il panorama politico americano potrebbe evolvere in modo imprevedibile. La crescente volatilità dell’elettorato, unita alla frammentazione delle coalizioni, apre spazi per nuove alleanze e strategie. Se Trump non riuscirà a mantenere l’equilibrio tra le due fazioni, rischia di alienare la parte nazionalista della propria base, favorendo l’ascesa di movimenti ancora più estremi. Allo stesso tempo, i broligarchi allineati con Trump per convenienza potrebbero a cambiare schieramento ogni volta che trovano un’opportunità più favorevole ai propri interessi. Per ora, affascinati dal “cosplaying dell’Impero romano”, i superuomini tecnologici salutano alzando il braccio il mondo che vogliono rifare a propria immagine. Una volta qualcuno ha detto, tra il serio e il faceto, “il fascismo è tornato, ma lo chiamano tecnofascismo, e allora balliamo”.
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