America
Trump al galoppo verso la palma del Super Martedì
Le primarie americane entrano nel vivo. Il primo marzo si terrà il cosiddetto Super Martedì, giorno in cui si voterà contemporaneamente in numerosi Stati (Alabama, Alaska, Samoa, Arkansas, Colorado, Georgia, Massachusetts, Minnesota, Oklahoma, Tennessee, Texas, Vermont, Virginia, Wyoming). Si tratta di uno spartiacque fondamentale per la campagna elettorale, visto l’elevatissimo numero di delegati che entrambi i partiti metteranno in palio (assegnati tendenzialmente con sistema proporzionale). Una lama tagliente, che dovrebbe sfoltire definitivamente le foglie secche, permettendo ai candidati più forti di proseguire la corsa verso le rispettive nomination.
I REPUBBLICANI
Una serie inopinata di trionfi ha rafforzato la pattuglia radicale del magnate Donald Trump, indebolendo al contempo il fronte centrista, che ha pian piano visto cadere diversi suoi esponenti, dal governatore del New Jersey Chris Christie all’ex governatore della Florida Jeb Bush.
Originariamente in 17, la folta pletora dei candidati repubblicani è venuta via via diradandosi, soprattutto a seguito dei primi appuntamenti elettorali. Il primo febbraio, si è tenuto il caucus dell’Iowa, che ha visto prevalere il senatore texano Ted Cruz. Ultraconservatore, molto vicino agli ambienti della destra evangelica (una quota elettorale ormai sempre più incisiva nell’ambito del cosiddetto Hawkeye State), Cruz si è però man mano sgonfiato, a causa della repentina ascesa di Trump, il quale è riuscito ad inanellare ben tre vittorie consecutive in New Hampshire, South Carolina e Nevada.
Come capo dei moderati è riuscito ad emergere il senatore della Florida Marco Rubio, anche se al momento non è stato in grado di vincere neppure uno stato, qualificandosi perennemente al secondo posto (se si fa eccezione per il New Hampshire, dove ha registrato una pessima performance).
La situazione attuale in termini di delegati è quindi al momento la seguente: su un totale di 1.237 (quanti cioè ne occorrono per conseguire la nomination), Donald Trump primeggia con 81. Seguono Rubio e Cruz entrambi a 17. Chiudono la fila il governatore dell’Ohio, John Kasich, con 6 e l’ex neurochirurgo evangelico Ben Carson con 4.
La forza elettorale di Trump appare al momento fuori discussione. Tanto più che la recentissima vittoria in Nevada potrebbe avviare un effetto domino che non è escluso possa garantirgli un colossale trionfo in occasione del Super Martedì. Nella fattispecie poi, i sondaggi danno attualmente il miliardario in testa in tutti gli Stati coinvolti: ad eccezione del Texas, in cui primeggerebbe Ted Cruz (che dello Stato è senatore). Soprattutto i popolosi territori meridionali sembrano poi compattamente favorevoli al creso newyorchese, che sta riuscendo a raccogliere voti trasversali, essendosi inoltre mostrato capace di pescare anche dal bacino della destra evangelica. Senza poi contare la sua energica performance televisiva durante il dibattito repubblicano di Houston, dove – solo – è riuscito a svettare, contrastando spavaldamente il fuoco incrociato degli avversari. Infine, venerdì, il miliardario ha ottenuto l’endorsement di Chris Christie: un fattore fondamentale. Non solo perché si tratta di un noto moderato, che potrebbe aiutare Trump ad aprirsi al centro in sede di general election (strategia che sembrerebbe già in atto, grazie all’appoggio dell’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani). Ma anche perché la scelta di Christie frantumerà prevedibilmente adesso il fronte moderato.
Un bel grattacapo soprattutto per Rubio, che rischia ormai di cucirsi sempre più addosso l’immagine di eterno secondo, lasciando così le ambizioni dell’establishment repubblicano decisamente a bocca asciutta. Nel caso Trump riuscisse difatti ad imporsi nel Super Martedì, già entro la fine di marzo potrebbe risultare in possesso del quorum di delegati necessario per conquistare la nomination. Un’eventualità che il GOP guarda come il fumo negli occhi. E il senatore della Florida sta cercando di correre ai ripari: da alcuni giorni ha difatti abbandonato il consueto stile polite, per attaccare a testa bassa il miliardario. Tuttavia, se non dovesse dimostrarsi all’altezza della competizione, non è escluso che si possa tentare qualche trucco alla convention di luglio.
I DEMOCRATICI
Dopo una breve partenza in cinque, la corsa tra i candidati democratici è subito diventata un duello tra Hillary Clinton e il candidato socialista Bernie Sanders. Uno scontro durissimo, che ha visto per giorni i due rivali appaiati nei principali sondaggi. Un grande smacco per l’ex first lady, che sino a quest’estate considerava la figura di Sanders qualcosa di balzano e inoffensivo. Si è dovuta ricredere. Non soltanto perché Sanders, al netto dell’estremismo, è riuscito ad imporre un discorso politico consequenziale e coerente (contrariamente alle costanti giravolte di Hillary). Ma anche perché la sua efficacia comunicativa di candidato anti-sistema è riuscita a concretizzarsi in effettivo consenso elettorale.
In occasione del caucus dell’Iowa, l’ex first lady è difatti riuscita a imporsi ma sul filo del rasoio, conquistandosi una vittoria zoppa e deleteria in termini di immagine. In New Hampshire poi, disastro totale: Hillary è stata pesantemente sconfitta non soltanto in uno Stato di tendenza storicamente moderata ma anche in un territorio che nel 2008 le aveva regalato la vittoria contro il liberal Barack Obama. Sanders si è difatti rivelato capace di attrarre voti trasversali, soprattutto da quote di notevole importanza: a partire dai giovani.
Tuttavia, il socialista Sanders qualche problema lo ha. Difatti, nonostante una sua attuale predominanza nel voto bianco, le minoranze etniche non sembrano per il momento seguirlo più di tanto. Lo si è visto in Nevada, Stato in cui le componenti elettorali ispaniche e afroamericane risultano storicamente fondamentali per vincere. E proprio qui Sanders è stato sconfitto, lasciando a Hillary l’immagine di candidata delle minoranze. Un’immagine confermata dalla schiacciante vittoria da lei riportata sabato in South Carolina. Una vittoria che mette adesso una seria ipoteca sulla campagna di Bernie, il quale sconta una scarsa fama nel meridione e un programma da più parti considerato troppo utopistico. Escludendo i delegati ottenuti nel Palmetto State, Hillary conduce con 502 a 70. Per quanto tra quei 502 ben 451 siano superdelegati (che non dipendono dai voti ma dall’establishment partitico). E adesso con il South Carolina, a Hillary dovrebbero andare 44 delegati, a Sanders 15.
Se Sanders non riuscirà ad accattivarsi le simpatie degli afroamericani e degli ispanici, la sua strada sarà destinata a farsi sempre più in salita. E il Super Martedì risulterà un test fondamentale per lui. Nonostante difatti possa sperare in alcuni Stati come il Massachusetts, la maggior parte dei territori in cui si voterà sono meridionali e quindi tendenzialmente favorevoli all’ex first lady. La quale adesso potrà anche sfruttare il trionfo registrato nel Palmetto State come spinta ulteriore per il primo marzo. Tanto più che il progressivo rafforzarsi di Trump sul fronte avverso potrebbe indirettamente favorirla, come unica candidata concretamente in grado di fermare le ambizioni del creso newyorchese. Sanders ce la metterà tutta. Ma se non se non guarderà oltre il recinto degli Occupy Wall Street, non andrà da nessuna parte. E potrebbe essere già troppo tardi.
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