America
Russiagate: il vittimismo inconcludente di Trump lo trascinerà a fondo
Il fuoco incrociato su Donald Trump si fa ogni giorno più intenso. E non si può certo dire che lui non ci metta del suo. Lo scandalo Russiagate sembra stringersi progressivamente intorno al presidente, mentre le sue strategie di difesa lasciano alquanto a desiderare. Nel pieno dell’indagine, ha silurato improvvisamente il direttore dell’FBI, James Comey, offrendo il fianco a quanti lo accusano di avere qualcosa da nascondere. Subito dopo, è stata la volta dell’informazione di intelligence condivisa con il Cremlino: a seguito della rivelazione del Washington Post, il presidente prima ha smentito tutto, salvo poi fare una giravolta, ammettendo che quell’informazione sensibile, effettivamente, la aveva passata ai russi. Una figura barbina, che ha costretto alla retromarcia anche quanti, nell’amministrazione, si erano spesi nella smentita (McMaster in primis). Il tutto mentre l’ipotesi dell’impeachment torna a circolare insistentemente e qualcuno mormora già come altamente probabile che l’attuale vicepresidente, Mike Pence, possa presto ascendere al più alto scranno della Casa Bianca. Ed ecco allora che, in questo marasma, vale forse la pena di analizzare con più calma la situazione, evidenziando in particolare due ordini di problemi: uno tecnico e l’altro squisitamente politico.
In primo luogo, è veramente possibile che Trump sia sottoposto a un impeachment? Teoricamente sì. Ma è molto difficile che ciò accada: almeno nel breve termine. Innanzitutto dobbiamo considerare che il procedimento di messa in stato d’accusa risulti particolarmente complesso e non esattamente breve. La Camera deve infatti prima istruire il processo, passando poi a una votazione in cui è richiesta una maggioranza semplice per l’approvazione. Qualora l’istanza passi, la parola passa al Senato cui spetta il giudizio vero e proprio sul presidente, che viene condannato se e solo se i due terzi dei senatori votano a favore dell’impeachment. Al momento, solo due volte nella Storia americana si è avuto un processo di messa in stato d’accusa completo: nel 1868 (ai tempi di Andrew Johnson) e nel 1998 (ai tempi di Bill Clinton). In entrambi i casi, il presidente fu salvato dal Senato. Di fronte a questa complessità, è difficile che nell’attuale situazione istituzionale il Congresso possa decidere di avviare un procedimento di impeachment. Senza poi trascurare che, al momento, entrambe le camere risultino a maggioranza repubblicana. E’ pur vero che molti deputati del Grand Old Party non sopportino Trump (soprattutto al Senato) e che vorrebbero toglierselo dai piedi. Ma è altrettanto vero che al Partito Repubblicano non convenga mettere sotto impeachment un proprio presidente. Ragion per cui, almeno fino alle elezioni di medio termine del 2018, una simile ipotesi appare abbastanza lontana (per quanto non del tutto escludibile).
Tuttavia, al di là della questione dell’impeachment, l’attuale caos chiama direttamente in causa la caratura politica dello stesso Trump. Messo alle strette, il presidente grida al complotto, evocando (un po’ impropriamente) lo spettro della caccia alle streghe: quel maccartismo che, all’inizio degli anni ’50, mirò a stanare (non senza paranoie) spie comuniste all’interno della società americana. Il senatore Joseph McCarthy mise sotto la lente d’ingrandimento soprattutto intellettuali e attori. E fu quando decise di volgersi all’esercito che nel 1954 – durante l’amministrazione di Eisenhower – fu di fatto bloccato, screditato e messo fuori gioco. Oggi, Trump rievoca le tinte fosche del Crogiuolo milleriano ma il problema resta uno solo. E non riguarda soltanto la sua condotta sotto il profilo morale e penale. Ma la sua effettiva capacità di azione politica.
In altre parole, il problema qui non è tanto se le accuse legate a Russiagate siano vere o false: una questione che – diciamocelo – in buona parte interesserà gli storici. Il punto qui è squisitamente di carattere politico. Con la campagna elettorale che ha condotto e il personaggio che incarna, non era pensabile, per Trump, non lastricarsi la strada di nemici (dalla stampa, all’intelligence, passando per molti deputati del Congresso). Se dunque Russiagate, come lo stesso Trump suggerisce, è un attacco politico, esigerebbe (secondo logica) una risposta autenticamente politica e non una serie di reazioni bislacche, raffazzonate e dilettantistiche. Quando Napoleone fece rapire e uccidere il duca d’Enghien, causando scandalo in tutta Europa, pare che il principe Talleyrand abbia affermato: “L’uccisione del duca d’Enghien non è stato un delitto. E’ stato un errore”. Una frase applicabilissima al caso Trump. Un presidente che, anziché prendere decisioni politiche energiche per uscire dall’angolo, cade in contraddizione e preferisce le grida isteriche. Senza poi trascurare realisticamente che, ammesso e non concesso che stia giocando sporco, non sia neppure in grado di giocare sporco. Ad oggi, il grande effetto politico di Russiagate è proprio questo: una forma di pressione per impedire a Trump di portare avanti alcuni punti salienti del suo programma originario (a partire dall’apertura verso Mosca). Una forma di pressione che, sotto molti aspetti, sembra stia rivelandosi abbastanza efficace, visto che il disgelo con la Russia appare sempre più lontano. Il tutto mentre Trump, una volta di più, dimostra una totale incomprensione delle dinamiche politiche, non capendo di essere stato lui stesso a scavarsi la fossa in cui sta sprofondando.
Dopo la vittoria dello scorso novembre, Trump ha difatti commesso due errori madornali: si è circondato di figure dalle dubbie capacità politiche e ha rinunciato a incarnare la figura del presidente inclusivo. Il presidente disposto magari anche ad aprire all’opposizione. Non dimentichiamo infatti che Ronald Reagan, quando vinse nel 1980, era visto da moltissimi come un pazzo guerrafondaio e un uomo politicamente divisivo. E fu proprio per uscire da quest’impasse che scelse un entourage competente e – soprattutto – cercò con successo la collaborazione dei democratici al Congresso per portare efficacemente avanti la sua agenda politica (soprattutto in materia di esteri). Di tutto questo oggi Trump avrebbe bisogno, per reagire agli attacchi di Russiagate. Ma lui no, preferisce sbraitare, preferisce il contatto diretto con le masse, preferisce firmare un numero abnorme di decreti inutili (perché tanto il Congresso non glieli ratifica). Il presidente eletto come uomo del fare è insomma caduto in uno stato di totale inefficienza.
L’unico modo che Trump ha per salvarsi da Russiagate è lasciarsi alle spalle la balcanizzazione politica in cui l’America è sprofondata. Aprire agli avversari e lavorare con le migliori energie politiche che il Congresso mette oggi a disposizione, in nome di un trasversalismo partitico che lui ha già sperimentato ed esemplificato a livello elettorale (avendo pescato sia da bacini repubblicani che democratici). Questa è l’ultima occasione che il presidente ha per uscire dalla melma in cui è piombato. Ma che abbia l’intelligenza, la profondità e l’audacia per capirlo, questo è un altro discorso.
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