America
“Viviamo in uno stato razzista”: nelle università americane esplode la protesta
Cosa sta succedendo in alcune università americane? Quella a cui stiamo assistendo, e di cui arrivano distrattamente notizie anche in Italia , è una nuova onda di attivismo universitario? In due università che più diverse (geograficamente, economicamente, socialmente) non potrebbero essere, Yale e University of Missouri, le proteste di studenti di colore e dei loro alleati – cioè spesso la maggior parte della popolazione universitaria – hanno portato a gesti eclatanti. In particolare, in Missouri il rettore si è dimesso dopo il clamoroso sciopero della squadra locale di football americano – che significa perdere migliaia di dollari per l’università, visto le entrate che questi sport comportano. A Yale invece circa 1200 persone sono scese in piazza lo scorso martedì: un numero incredibile in una università, una delle otto prestigiose Ivy League (le altre sono Harvard, Columbia, Princeton etc.), tradizionalista, calma persino noiosa, in genere quasi immune da proteste di questo tipo. I motivi delle proteste, al di là degli episodi specifici, sono simili e riguardano spesso l’intero paese e non solo questi college: il razzismo è ancora endemico alla società americana, come gli eventi degli scorsi mesi, tra cui il costante accanimento da parte della polizia contro giovani neri e latini, dimostrano. E non è pensabile che le università ne siano escluse.
Questi gesti e momenti plateali hanno scatenato riflessioni e commenti online e non, con praticamente tutti i principali giornali americani (dal New Yorker a Slate passando per il Washington Post) ad interrogarsi su cosa succede. Spesso però tralasciando il contesto specifico di queste università. E nella stampa diciamo di destra, ma in parte anche in quella pigramente liberal, gli studenti sono stati dipinti come una branca di viziati e privilegiati che si scagliano contro la libertà di parola – il famigerato free speech, una delle colonne portanti della democrazia americana. Quando non è volontà deliberata di sminuire le proteste, questo “equivoco” nasce soprattutto da uno dei due episodi che a Yale hanno scatenato la protesta: provando a semplificare, un gruppo di amministratori che si occupano di relazioni interculturali mandano una email prima di Halloween a tutti gli studenti dicendo “fate attenzione a come vi vestite, alcuni costumi – come facce dipinte di nero o costumi da nativi americani – potrebbero risultare offensivi”. Niente di sconvolgente, in un paese che ha vissuto un genocidio e decenni di razzismo (e fa fatica a farci i conti) un po’ di attenzione e sensibilità culturale è necessaria. A questa email però ha risposto un associate master – cioè la moglie di un master, appoggiata anche da quest’ultimo – di un college dicendo, con linguaggio paternalistico, che gli studenti devono sentirsi liberi di vestirsi come vogliono. Necessaria parentesi: a Yale ci sono 12 college residenziali, sul modello di Oxford e Cambridge, che sono molto di più che semplici posti dove gli studenti vanno a dormire la notte. Intorno a questi si struttura la vita studentesca, in tutte le sue componenti, sono una casa e una scuola al tempo stesso, il master è chi supervisiona il tutto, è una figura paterna (o materna), in genere è un professore importante e affermato – in questo caso Nicholas Christakis, sociologo, nominato da Time nel 2009 come una delle 100 persone più influenti al mondo. Cosa succede se un padre (o madre) è quanto meno insensibile nei tuoi confronti? Gli studenti del college non l’hanno presa bene, e in un video che sta girando molto volano anche parole forti. Una studentessa nera, che da allora ha ricevuto minacce di morte e su cui una certa stampa si è accanita dimostrando un razzismo incredibile, attacca Christakis provando anche ad azzittirlo. Vale la pena notare come da noi quello che sarebbe stato rubricato come un litigio, magari un filo sopra le righe, ma nulla più, qui è diventato un caso di presunto tentativo di violare la libertà di parola (l’Atlantic ha parlato addirittura di “nuova intolleranza dell’attivismo universitario”).
La libertà di parola di un professore famoso, benestante, che occupa una posizione di oggettivo privilegio e che ha mille modi e mille possibilità di esprimersi, mentre si è sottolineato molto meno che questa e altri studenti che con lui si sono confrontati non sono propriamente dei rivoluzionari o degli irrispettosi, ma proprio studenti che si sentono traditi e umiliati da chi dovrebbe proteggerli – il master del college. Questo episodio arriva poi lo stesso weekend di un altro in cui sarebbe stato vietato l’ingresso ad una festa in una fraternity a studentesse non bianche (neabbiamo già scritto altrove, le fraternity sono luoghi e comunità tra i più sessisti e razzisti d’America, pace Animal House e il mito che ne abbiamo in Italia). Ma come ha scritto uno studente di Yale, Aaron Z. Lewis, in un articolo che sta girando molto, “le proteste non sono davvero a proposito dei costumi di Halloween o una festa… hanno a che fare con esperienze reali di razzismo su questo campus che sono state ignorate per troppo tempo. Yale si promuove come accogliente e inclusiva per tutti, al di là delle origini e del background. Sfortunatamente, non è così”.
Yale è una delle università più ricche degli Stati Uniti, dove si educano le classi dirigenti del paese – e non solo, vista la presenza di studenti internazionali. E se negli anni c’è stata una lenta inclusione, numerica, di persone non bianche e che arrivano non dalle solite élite, il razzismo è ancora molto presente. Così negli ultimi mesi in campus –come in altri campus americani – c’è stata una costante maggiore consapevolezza verso tematiche quali inclusione, e non solo rappresentazione, razziale, e lotta alla discriminazione. Tutto ciò arriva anche sull’onda lunga delle proteste di Ferguson e Baltimore, e delle manifestazioni che hanno scosso gli Stati Uniti lo scorso autunno. Ma ci sono ancora altri aspetti specifici di Yale. Uno è il dibattito, scoppiato in estate, su John C. Calhoun e il college a lui dedicato: Calhoun, che è un politico americano di inizio ‘800, suprematista bianco e proprietario di schiavi, oltre che gran fan e propositore della schiavitù. Ce ne sono tante altre di storie di questo tipo nelle università americane d’élite, legate a doppio filo con il potere e finanziate non sempre da personaggi raccomandabili, ma su questo si è scatenata una controversia molto sentita all’università ed è stato richiesto ufficialmente di cambiare il nome. Ancora, uno dei master di un altro college ha deciso di non voler esser più chiamato così poiché offensivo verso gli studenti di colore: master vuol dire infatti anche proprietario, signore. Mentre, sul lato degli episodi discriminatori, l’anno scorso il figlio di un editorialista del New York Times è stato malamente fermato con tanto di pistole puntate, sostanzialmente perché nero, dalla polizia dell’università (per errore, si capisce, errori che negli USA capitano più spesso contro neri e latini che contro i bianchi). E diversi professori di colore (da ultima, l’affermata antropologa Karen Nakamura) se ne stanno andando verso altri lidi più rispettosi delle minoranze. Che a livello nazionale il razzismo sia reale oltre che percepito è abbastanza un dato di fatto, come dimostrano tra l’altro le recenti minacce ricevute proprio dagli studenti neri dell’università del Missouri.
Sembra storie di un altro mondo, diverse dall’immagine che gli Stati Uniti costruiscono di loro stessi. Ma sembrano storie di un altro mondo anche perché è talvolta difficile riuscire a ricostruire le dinamiche americane di stratificazione, multietnicità, difficile convivenza, razzismo costante e via dicendo. Applicare classificazioni e modi di pensiero europei o italiani semplicemente non funziona. I campus americani poi, specie di alcune università, sono microcosmi a parte, mondi in cui vigono regole separate, una sorta di via di mix tra università, scuola superiore, e collegio militare.
Questa generazione che si sta mobilitando in alcuni campus americani è una generazione certamente non abituata a fare politica, ma anche cresciuta durante l’amministrazione Obama e con un’idea che forse qualcosa poteva davvero cambiare per le minoranze. È adesso delusa, e al quanto arrabbiata, tanto che anche in un posto iper-protetto come Yale possono scatenarsi proteste. È presto per dire quanto sia l’inizio di un nuovo movimento di protesta all’interno dei campus americani, visto che malgrado le proteste siano scoppiate per ragioni endemiche e locali a Yale e a University of Missouri i problemi sono ben più ampi e comuni a moltissime università. Di sicuro qualcosa sta succedendo.
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