America

Quel che resta del sogno. 53 anni dopo Martin Luther King, 8 anni dopo Obama

29 Agosto 2016

Cinquantatre anni sono passati da quel 28 agosto 1963 al Lincoln Memorial di Wahington quando Martin Luther King pronuncia quel discorso  che nelle parole,  come nelle immagini e nel suono di quelle parole,  ha segnato a lungo e, probabilmente, ancora segna l’identità collettiva.

Vale la pena riconsiderarlo, ad anniverasario appena trascorso,  proprio mentre la cronaca attuale negli Stati Uniti sembra comunicare ostinatamente il contrario: quel sogno è appunto rimasto tale. L’eguaglianza – forse più precisamente la non discriminazione – deve fare ancora strada per affermarsi. Per di più in una campagna elettorale dove la partita è tornata ad accendersi intorno a quel tema.

E tuttavia proprio perché in politica contano i miti, insieme ai programmi, è bene tenere fresco o vivo quel sogno e, soprattutto, avere anche chiaro che la sfida di oggi e quella di allora si nutre di parole simili, ma con scenari diversi e che il confronto, oggi, è proprio sulla delusione, più che sul riscatto.

Per lo stesso principio all’inizio della sua ultima tappa per la prima elezione alla Casa Bianca Barak Obama proprio da lì aveva cominciato.

Chi andasse oggi a riprendere il testo del suo discorso pronunciato il 28 agosto 2008 a Denver  nel catino dell’ Invesco Field, alla fine della Convection democratica, ritroverà tutte le grandi pagine dell’album politico democratico: la memoria di Kennedy; l’ironia e la “cattiveria” del miglior politico Bill Clinton; l’astuzia e l’intelligenza di Hillary. Ma soprattutto l’ombra di Martin Luther King. Il riferimento di Obama non era casuale come del resto la scelta della data stessa del discorso di nomina.

Giovedì sera 28 agosto 2008, Obama non ha solo omaggiato un momento magico della storia civile americana, ma ha sottolineato la differenza da allora. Un Paese che già allora aveva il Segretario di Stato di colore, che ha avuto il capo di stato maggiore di colore non è più lo stesso paese in cui di Martin Luther King prese la parola quel 28 agosto, per quante discriminazioni e differenze possa ancora contemplare. E’ un Paese che ha il problema, alla rovescia di saper accogliere le parole di chiunque come rivolte a chiunque. E’ qui che è stato il vero pregio del discorso di Barak Obama ed è qui otto anni dopo il problema della crisi della politica, si potrebbe dire della democrazia, negli Stati Uniti di oggi. Il fine di Barak Obama quel 28 agosto di otto anni fa era fare  in modo che chiunque l’ascoltasse, soprattutto se non presente nel catino di Denver, non si chiedesse di che colore fosse la pelle di chi stava parlando. Quel problema, otto anni dopo, non sembra risolto

Otto anni dopo  la rilettura di quel discorso ha l’effetto di misurare la distanza da allora (dal 2008), mentre sembra evocare per somiglianza e non per differenza gli Stati Uniti del 1963. Ma il punto è che oggi l’America che sta per archiviare la presidenza Obama si trova a fare i conti con un “sogno” che percepisce “mancato” e dunque dove le parole forti possono essere quelle  quelle del “controsogno” che possono tornare ad avere spazio.

Anche per questo conviene tornare al testo di Martin Lutrher King e riflettere su cosa sia il sogno in politica.

Il sogno in politica è una macchina per fare, non è un programma già scritto da realizzare.

Il sogno non è lo scenario compiuto di un intero ciclo. Non è il futuro, ma è la condizione perché a partire dal presente inizi a prendere corpo un domani diverso.

Il sogno è un richiamo alla responsabilità. Richiede un atto.

Chiediamoci. Con il crollo delle Twin Towers si è definitivamente chiusa la porta del sogno?  La scena dell’11 settembre 2001 ha archiviato definitivamente la possibilità del sogno? Si può sognare da allora? O il sogno è solo l’incubo della galleria di immagini (di sangue) degli ultimi quindici anni?

L’11 settembre interrompe una fiducia nel futuro e distrugge l’immagine di consolazione che molti si erano costruiti lungo il decennio precedente inaugurato con un altro crollo: quello del Muro di Berlino. Tuttavia mentre il 9 novembre 1989 è stato un evento celebrativo e narcisistico, l’11 settembre è stato l’evento che in maniera radicalmente opposta e speculare ci ha mandato a dire che non eravamo nel migliore dei mondi possibili.

Non ci si dimette dalla storia e neppure la si può dichiarare chiusa a proprio piacimento. Qualcuno, venti anni fa, ha proposto di farlo. Si chiamava Francis Fukuyama, la sua ricetta era priva di fondamenta. Forse era ammagliante, ma era falsa.

L’11 settembre del 2001 alle ore 8,48 circa del mattino (ora di New York) quell’illusione è finita: la storia, a dispetto di Fukuyama c’era ancora. La riapertura della storia include che si riapra la partita del sogno, una condizione che presume appunto la consapevolezza che niente è ineluttabile o già scritto. E, soprattutto, che ci sia infelicità e che per raggiungere una qualche terra promessa occorra uscire da una condizione di schiavitù e di malessere e provare a cambiare.

Il sogno, infatti, non è il frutto di una condizione pacificata.

Il sogno è l’indicatore di un  malessere, di un’inquietudine che cerca vie di miglioramento e prova a battere strade alternative al proprio presente, Che lotta con altri che sognano altrio sogni, opposti e che da soli non periranno.

Il grande insegnamento di Martin Luther King non era il diritto al sogno, ma la consapevolezza che il sogno ha una possibilità se non ci si limitta ad enunciarlo e ad aspettarlo, ma se ci si impegna. Il sogno del riscatto democratico non verrà da solo, bisogna metterci del “proprio”. Non solo crederci, ma rischiare. E per rischiare, esserci.

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