America

Nel paese che le inventò le primarie sono un caos: ecco i nomi di #Usa2016

27 Gennaio 2016

Botte e sangue. L’agone politico statunitense si fa sempre più caotico, mentre in seno ai due principali partiti i vari candidati affilano i denti con la bava alla bocca. E l’inizio delle primarie è ormai a un passo. Come da tradizione, la disfida elettorale per la conquista delle rispettive nomination avrà inizio con il caucus dell’Iowa (il 1 febbraio) e con le primarie del New Hampshire (il 9 febbraio). Due appuntamenti di notevole importanza, non tanto per il numero di delegati che i partiti mettono in palio, quanto per l’enfasi mediatica che a questi eventi tendenzialmente si accompagna. Un trampolino di lancio che fa gola a molti e che giustifica il dispendio di energie che numerosi candidati stanno impiegando in questi early States: due realtà dalle fisionomie profondamente differenti, a partire proprio dal loro diverso sistema elettorale.

Nell’ Hawkeye State si tiene difatti un caucus: l’assemblea chiusa degli attivisti di partito, che tende conseguentemente a favorire l’imporsi dei candidati più radicali. Di contro, il New Hampshire ospita delle primarie aperte: un sistema generalmente in grado di attirare voti trasversali e meno politicizzati, favorendo così l’emergere di candidati più moderati. E in tutto questo la corsa per le nomination si fa più serrata che mai, nel segno di una situazione profondamente ingarbugliata, in cui le incognite restano ancora molte e le certezze assai poche. Per entrambi gli schieramenti.

 

DUELLO DEMOCRATICO

Il paradosso maggiore riguarda il Partito Democratico: una compagine in cui – secondo molti analisti – avrebbe dovuto facilmente imporsi la figura di Hillary Rodham Clinton. Data la sua potenza economico-politica e l’apparente assenza di rivali significativi, sembrava scontata una sua ascesa: automatica, rapida e indolore. Né l’ex segretario alla Marina, Jim Webb, nè tanto meno l’ex governatore del Rhode Island (e notorio voltabandiera), Lincoln Chafee, si sono mai mostrati come alternative concrete. Il primo, troppo destrorso. Il secondo, impalpabile nel suo vacuo pacifismo. Ed entrambi difatti si sono ritirati miserevolmente. Qualche speranza a dire il vero veniva riposta nell’ex governatore del Maryland, Martin O’Malley: amministratore capace, giovane, di sinistra. Ma la sua campagna non è mai riuscita a decollare, essendo costantemente rimasto inchiodato intorno al 3% dei consensi.

Ciononostante, qualcosa è andato storto. Hillary sapeva bene che questa volta le frange più radicali dell’asinello avrebbero fatto sentire vigorosamente la propria voce. Sapeva bene che il risentimento verso Wall Street e la finanza che conta sarebbe montato. E che lei – proprio lei – ne avrebbe potuto fare le spese, viste le sue amicizie altolocate e i suoi munifici finanziatori. Proprio lei che – guarda caso – in occasione delle primarie democratiche del 2008 si era candidata come rappresentante della destra democratica, in linea con i princìpi programmatici del marito Bill (la Third Way): proprio lei, che aveva allora pagato cara quella scelta, vedendosi soffiare inopinatamente la nomination dal liberal Barack Obama.

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Memore di tutto questo, da giugno, Hillary ha caratterizzato la propria campagna elettorale con una profonda virata a sinistra, mutando radicalmente opinione su un cospicuo numero di temi: ha sposato le istanze del gun control, approvato le nozze omosessuali, supportato politiche sociali profondamente di sinistra e addirittura condannato quella guerra in Iraq che da senatrice aveva invece apertamente appoggiato nel 2002. Eppure tutto questo non è bastato. La sinistra democratica non sembra averle creduto. E non riuscendo a sentirsi veramente rappresentata ha iniziato a guardare con sempre maggiore simpatia alla figura di Bernie Sanders.

Senatore del Vermont, autodefinitosi socialista, l’arzillo Bernie si è intestato una serie di battaglie politiche dai risvolti profondamente sociali: guerra allo strapotere finanziario, aumento dei salari minimi, opposizione ai trattati internazionali di libero scambio (dalla TTP alla TTIP), in difesa dei posti di lavoro. Un autentico folle, sulla carta, che è tuttavia riuscito nel corso dei mesi ad acquisire credibilità e a conferire sostanza a un programma inizialmente tacciato da più parti di essere nient’altro che una boutade utopistica. Tanto, da essersi accreditato ad oggi come unica seria alternativa alla Clinton in casa democratica. E la stessa Hillary ha ormai compreso – forse troppo tardi – il suo micidiale potenziale. Se difatti fino a quest’estate rifiutava altezzosamente di replicare agli attacchi di un rivale che riteneva risibile, ha dovuto cambiare atteggiamento a partire da settembre: quando i sondaggi hanno iniziato a mostrare una rapida ascesa del socialista, che ha inevitabilmente gettato nel panico l’ex first lady. E le cose oggi per lei sembrano addirittura peggiorate.

Innanzitutto in New Hampshire. Qui Sanders attualmente condurrebbe addirittura col 51% dei consensi: ben 12 punti in più rispetto a Hillary. Un dato rilevante, soprattutto se letto alla luce del fatto che storicamente il Granite State tende a favorire i candidati più centristi. E difatti la Clinton nel 2008 vi trovò la vittoria (seppur non schiacciante, visto che Obama si piazzò al secondo posto con pochi punti di distanza). Ma anche in Iowa le cose non vanno bene per l’ex segretario di Stato. Per quanto qui sette anni fa venne pesantemente sconfitta, è altrettanto vero che stavolta fino a ottobre vi era riuscita a mantenere una posizione di predominio abbastanza salda. Poi è iniziato il testa a testa: che dura ancora oggi. Gli ultimi sondaggi vedono difatti una Clinton avanti di appena quattro punti percentuali. Praticamente nulla, tanto più se si considera il fatto che un candidato come Sanders risulta storicamente avvantaggiato in un contesto radicale come l’Iowa.

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Se questa situazione mette in luce da una parte l’indiscussa abilità politica dell’arzillo Bernie, dall’altra pone però anche in evidenza i talloni d’Achille che caratterizzano l’ex segretario di Stato. Innanzitutto alcuni elementi sono deducibili dai dati elettorali. Secondo recenti rilevazioni condotte proprio nell’Hawkeye State, Hillary risulterebbe forte su due segmenti: elettori anziani e donne. Sanders, di contro, godrebbe dell’appoggio di altre due quote: i maschi ma – soprattutto – i giovani. Frangia, questa, importantissima, visto che proprio grazie ad essa Obama riuscì ad imporsi in Iowa nel 2008. In secondo luogo, la Clinton sconterebbe un’opacità di immagine dovuta a scandali e situazioni poco chiare: dal caso Bengasi, all’Emailgate, passando per i finanziamenti un po’ torbidi legati alla fondazione di famiglia.

Infine una questione ideologica: nonostante il suo tentativo di ricollocarsi a sinistra, Hillary è ancora percepita sostanzialmente come una conservatrice. E molti nel Partito Democratico non digeriscono quella che viene sempre più intesa come un’incoronazione dinastica. E difatti diversi big si stanno già sganciando dal suo carro: a partire dalla senatrice Elizabeth Warren (sua atavica nemica) e dal vicepresidente, Joe Biden, che hanno più o meno dichiarato di nutrire una certa simpatia per Sanders. Lo stesso presidente non è poi un mistero stia remando contro l’ex segretario di Stato: i due non si sono mai amati. E Barack uno sgambetto glielo farebbe volentieri (tanto più che, secondo i malevoli, proprio lui starebbe cercando in questi giorni di convincere l’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, a candidarsi da indipendente in funzione anti-clintoniana).

 

“Non sono interessata ad idee che sembrano buone sulla carta ma che non potranno mai concretizzarsi nel mondo reale. Io mi occupo di fare una differenza reale nella vostra vita”

(Hillary Clinton sul programma di Bernie Sanders)

 

E Bernie adesso gongola. Perché – a differenza di Hillary – può anche accontentarsi di un buon piazzamento nei primi Stati in cui si voterà, senza dover vincere necessariamente. La sua strategia è difatti abbastanza chiara: sa bene che difficilmente riuscirà ad ottenere la nomination. Ragion per cui, suo obiettivo primario è quello di logorare la rivale, tentando di portarla azzoppata allo scontro per la Casa Bianca. E a quel punto – correndo da indipendente – l’anziano socialista cercherà di sottrarle i voti non soltanto della sinistra ma anche degli indipendenti. Un incubo per l’ex first lady, che – secondo i beninformati – starebbe già approntando una strategia per blindare il South Carolina (quarto Stato in cui si voterà per i democratici), avendo iniziato seriamente a temere di non farcela (o comunque di non farcela adeguatamente) in Iowa, New Hampshire e Nevada. Ma anche qui la situazione non sarà facile. Nelle primarie del South Carolina riveste infatti un particolare peso l’elettorato afroamericano: una quota che attualmente i sondaggi danno come simpatizzante per Sanders. E d’altronde, sette anni fa, non a caso vi vinse – per quanto inaspettatamente – Barack Obama. E lo spettro del 2008 torna inquietantemente a perseguitare Hillary.

 

FAIDA REPUBBLICANA

La corsa per la nomination repubblicana è stata una delle più affollate e rissose degli ultimi tempi. Con ben diciassette candidati in lizza, l’elefantino ha visto crescere a dismisura i rappresentanti della sua ala ultraconservatrice, nel nome di una progressiva spaccatura tra destra ed establishment. Una spaccatura nata in seno al Congresso. Ma che si è prontamente riverberata all’interno della competizione elettorale. Subito difatti i candidati della destra si sono coalizzati contro colui che avrebbe originariamente dovuto essere il front runner dello schieramento GOP, l’ex governatore della Florida, Jeb Bush: repubblicano moderato e inviso alle frange radicali. Sennonché, in questo 2016, un evento decisivo ha letteralmente sparigliato le carte: la discesa in campo del miliardario Donald Trump.

Irriverente, duro, scorretto, si è messo alla testa delle quote elettorali più estremiste, proponendo un programma fondamentalmente populistico, che ha trovato nella questione dell’immigrazione illegale il proprio vigorosissimo cavallo di battaglia: ha difatti ripetutamente sostenuto la necessità di erigere un muro difensivo al confine col Messico e di deportare circa undici milioni di clandestini irregolari. Un crogiuolo di posizioni radicali e linguaggio colorito che gli ha fatto via via accumulare un vantaggio sondaggistico sempre più notevole: permettendogli gradualmente di fagocitare una serie di candidati destrorsi assolutamente incapaci di decollare (da Rick Perry a Scott Walker, passando per Bobby Jindal).

Infischiandosene del politically correct, ha iniziato a picconare letteralmente l’establishment del partito, da lui a più riprese tacciato di essere imbelle e colpevolmente tendente all’inciucio: John McCain, Lindsey Graham e lo stesso Jeb Bush. Tutti hanno fatto le spese dei suoi durissimi attacchi: mentre l’universo radicale è venuto via via coagulandosi attorno a lui. Dalle frange del Tea Party alle quote degli indipendenti. Persino buona parte della religious right sembrerebbe paradossalmente aver trovato il proprio punto di riferimento in questo ex liberal newyorkese (un tempo donnaiolo filo-abortista, oggi convertitosi sulla via di Damasco, a suon di citazione bibliche). E il suo predominio nei sondaggi è rimasto tale da mesi.

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Innanzitutto in Iowa: habitat naturale per il creso Donald, vista la sua storica propensione per il voto radicale (non a caso, in occasione delle primarie del 2008 vi vinse Mike Huckabee e in quelle del 2012 Rick Santorum: entrambi rappresentanti della destra religiosa). E per quanto nel mese di ottobre fosse stato scalzato dall’ex neurochirurgo evangelico Ben Carson, quest’ultimo si è rivelato ben presto una meteora, crollando nel giro di pochi giorni di circa venti punti percentuali: cosa che ha lasciato Trump front runner incontrastato nell’Hawkeye State, almeno fino a metà dicembre. Quando – a ben vedere – è cominciato qualche problema.

Il senatore texano, l’ultraconservatore Ted Cruz, ha difatti iniziato una graduale ascesa nei sondaggi, arrivando a spodestare il miliardario, soprattutto nel bacino della destra religiosa. La strategia di Cruz è stata difatti subito chiara: rivolgersi ai radicali infastiditi dalle sparate di Trump e – contemporaneamente – cercare di accattivarsi le simpatie dei suoi sostenitori. Ragion per cui, ha generalmente evitato di entrare in conflitto diretto con lui, rispondendo con l’ironia ai suoi attacchi. Ma Trump non ha perso tempo: e a cavallo tra dicembre e gennaio ha lanciato un’offensiva durissima contro il pericoloso rivale. Innanzitutto si è prontamente schierato con la lobby pro-etanolo, particolarmente forte in Iowa e notoriamente avversa a Cruz. In secondo luogo, ha messo in questione la stessa eleggibilità del senatore alla presidenza degli Stati Uniti, essendo lui nato in Canada (per quanto da madre – pare – cittadina statunitense). E adesso il magnate sarebbe riuscito a riconquistare il primato in Iowa, configurandosi al momento un testa a testa tra i due, che vede Trump in leggero vantaggio di circa tre punti percentuali.

 

“Un totale ipocrita e, fino a poco tempo fa, un cittadino canadese che potrebbe non avere il diritto legale di correre per la presidenza degli Stati Uniti”

(Donald Trump su Ted Cruz)

 

 

Situazione differente in New Hampshire. Per quanto anche qui i sondaggi diano al momento Trump nettamente in testa al 32% dei consensi, appare francamente difficile una sua vittoria. Come detto, il Granite State si è storicamente contraddistinto per un voto di tendenza moderata. E per quanto il sistema delle primarie aperte attragga quelle quote indipendenti che effettivamente potrebbero supportare il magnate, è altrettanto vero che è improbabile una virata del New Hampshire in senso radicale. Proprio per questo, i candidati più vicini all’establishment stanno ormai da mesi battendo il territorio palmo a palmo per cercare di vincere in questo Stato e intestarsi così il ruolo di leader dei moderati. Più in particolare, il Granite State starebbe ospitando un conflitto a quattro: una vera e propria guerra tra il governatore del New Jersey, Chris Christie, l’ex governatore della Florida, Jeb Bush, il governatore dell’Ohio, John Kasich e il senatore della Florida, Marco Rubio.

Partito in sordina e inizialmente in gravi difficoltà nella raccolta di fondi, Chris Christie sembrerebbe nutrire grandi aspettative in questo Stato. Pur tenendo d’occhio l’Iowa (in cui spererebbe di ottenere un buon piazzamento, appoggiandosi all’establishment locale del partito), ha ormai impiegato la maggioranza delle sue risorse proprio nel Granite State, attraverso una strategia di presenza capillare sul territorio. Strategia cui ha congiunto una virata a destra abbastanza decisa su alcuni temi (dal gun control ai rapporti con i musulmani). L’intento è chiaro: accattivarsi i voti del bacino moderato, tutelandosi simultaneamente dagli attacchi di quanti lo accusano di essere una sorta di liberal travestito.

 

“Non c’è una persona degna di nota in questa competizione che Marco Rubio non abbia attaccato. E’ un ipocrita, perché dice di non voler dire nulla di negativo su alcun candidato e poi invece attacca chiunque” 

(Chris Christie)

 

Poi abbiamo Jeb Bush. L’ex front runner repubblicano ha dovuto affrontare una campagna decisamente in salita, ritrovandosi costantemente bersagliato dalle derisorie critiche di Donald Trump. Anche lui sta puntando tutto sul New Hampshire: e difatti nelle ultime settimane avrebbe mobilitato il potentissimo network di famiglia, per cercare di imporsi nettamente in questo Stato. Perché il suo non è soltanto un problema di credibilità e di leadership. E’ anche un problema di fondi. Nonostante l’appoggio di munifici finanziatori (è tra i candidati riusciti ad accumulare di più negli ultimi mesi), è indubbio che – tra performance televisive mediocri e sondaggi disastrosi – i suoi opulenti supporter risultino ormai sempre più scettici nei suoi confronti. In tal senso, il New Hampshire rappresenterebbe una sorta di prova per Bush. E – nel caso  non ce la facesse – i fiumi di danaro che sino ad oggi lo hanno sostenuto, potrebbero essere dirottati altrove (per esempio su Marco Rubio). Jeb, dal canto suo, ce la sta mettendo tutta. Ha cercato di migliorare la comunicazione, spostandosi anche maggiormente a destra e tentando di accreditarsi come candidato preparato e di esperienza. Ma le incognite restano.

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Ed eccoci a John Kasich, il più sinistrorso tra i quattro. Storicamente moderato, è forse l’unico tra i candidati repubblicani a non aver presentato radicalizzazioni in seguito al successo di Trump. Una figura interessante, che gli ultimi sondaggi danno in netta crescita: addirittura in New Hampshire si collocherebbe al secondo posto con il 13,4% dei consensi. E una sua eventuale vittoria in questo Stato potrebbe seriamente aprirgli la possibilità di arrivare a conquistare la nomination. Evento, che da una parte potrebbe favorire immensamente il Partito Repubblicano, dal momento che – in sede di general election – potrebbe garantirgli la conquista del fondamentale Ohio. Il problema è semmai capire se tutto l’elefantino possa realisticamente scegliere di compattarsi dietro questo maverick, senza replicare quanto accaduto nel 2008  e nel 2012: quando la destra radicale arrivò a boicottare McCain e Romney, perché ritenuti degli eretici centristi.

Infine Marco Rubio. Teoricamente il senatore della Florida avrebbe ottime chances di successo. Una figura giovane e un messaggio vigoroso, protratto alla realizzazione di un New American Century: il tutto unito alla capacità di attrarre voti trasversali, che gli consentano di attingere tanto dalla destra quanto dal centro. Un potenziale federatore, dunque: ciò di cui il GOP avrebbe bisogno in un periodo di divisione come quello odierno. Ex pupillo di Jeb Bush, nel corso di questa campagna elettorale ha smorzato non poco il proprio tradizionale centrismo, spostandosi a destra su diversi fronti (questioni etiche in primis). E adesso spera di prendersi il GOP, nonostante le polemiche che gli piovono addosso dal fronte conservatore così come da quello moderato.

 

“Noi tutti vediamo che cosa sta succedendo. Jeb Bush è disperato e sta spendendo milioni per attacchi basati su falsità. Non cascateci!”

(Marco Rubio)

 

Ma i dubbi restano molti. Da una parte la sua strategia elettorale: sebbene contraddistintosi per buone performance durante i dibattiti televisivi, non sembra abbia finora attuato una campagna capillare sul territorio (come invece i suoi diretti avversari). Debolezza, questa, che lo sta danneggiando tanto in Iowa quanto in New Hampshire: due Stati, in cui avrebbe ottime possibilità. Ma in cui l’elettorato lo avverte sempre più algido e lontano. E difatti, proprio nel Granite State, gli ultimi sondaggi lo danno scivolato dal secondo al quarto posto. Mentre la sua base lo reclama per una maggiore presenza in loco. Senza poi contare, come, se da una parte la sua trasversalità possa tornargli utile, dall’altra potrebbe alla lunga anche danneggiarlo: soprattutto dalle parti della destra non sono state ben viste le sue continue giravolte: piroette che gli hanno guadagnato numerose critiche, soprattutto dal rivale Ted Cruz. A questo si aggiunga poi un ulteriore fattore: secondo Politico, Rubio non disporrebbe al momento di chissà quale appoggio da parte dei senatori centristi. Elemento rilevante, visto che lui – senatore – è sempre stato considerato vicino all’establishment del partito e – in particolar modo – alla figura di John McCain. E l’assenza di endorsment significativi equivale all’assenza di finanziamenti. E’ pur vero tuttavia che questa situazione potrebbe sbloccarsi nel momento in cui Jeb Bush non riuscisse ad imporsi in New Hampshire. A quel punto, l’establishment del partito potrebbe decidere di puntare seriamente su Rubio.

Certo è che l’incertezza regna sovrana in entrambi i partiti. E qualcuno inizia a ipotizzare che vi saranno seri problemi per la conquista delle rispettive nomination. Il rischio è difatti che – col progredire delle primarie – la nebbia aumenti, anziché diradarsi. E l’ultima parola, si sa, spetterà alle convention.

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