America

Perché Trump vincerà comunque

8 Novembre 2016

Le ultime rilevazioni a pochi giorni dal voto USA segnalavano una notevole ripresa del candidato repubblicano sulla Clinton, forse aiutato dal nuovo scandalo delle mail dell’ex segretario di Stato, comunque intervenuto a colpire una candidatura democratica alquanto opaca e zoppicante. Lo scandalo pare rientrato, e le quotazioni della Clinton sembrano in risalita. Questo articolo non vuole però essere una esercitazione da stregoni per tentare di prevedere cosa accadrà l’8 di novembre, quanto una riflessione (amara) sul perché il fenomeno Trump rappresenta qualcosa di più ampio e pervasivo rispetto a come lo abbiamo interpretato in questi mesi. Ecco perché il titolo del pezzo potrebbe essere: “perché i Trump vinceranno comunque”.

Il plurale è fondamentale perché Trump, fatto salvo le sue peculiarità personali e gli elementi tipici del contesto sistemico americano, è parte di un più ampio movimento che sta scuotendo le fondamenta delle democrazie occidentali. Donald Trump è semplicemente la spia più grande e luminosa che ci segnala un generale affanno dei nostri sistemi democratici e delle istituzioni politiche dell’occidente. Una spia che è sorta nonostante gli 8 anni scintillanti e glamour della presidenza Obama. Una spia quindi ancor più rivelatrice.

I Trump che si aggirano nell’occidente confuso e un po’ decadente, che in Europa prendono le sembianze delle Le Pen, dei Farage, dei Salvini o dei Wilders, sono i figli e il prodotto del nostro tempo. Sono gli uomini e le donne politiche in grado di fare quello che i vecchi partiti tradizionali e i loro leader non sono più in grado di fare: rappresentare. Rappresentare fasce di popolazioni, ceti sociali, che le nostre democrazie hanno messo ai margini negli ultimi venti anni. Rappresentare bisogni concreti ma anche percezioni e sentimenti. I bisogni concreti sono la risposta ad una sempre maggiore alienazione sociale e politica, la necessità di sostenere chi è stato espulso dai cicli produttivi ed economici, il bisogno di ricevere sollievo dalle conseguenze distruttive di una crisi economica in cui, come era facilmente prevedibile, i più deboli (il numero maggiore) hanno pagato il conto più salato e i più ricchi (il numero più esiguo) hanno visto crescere i loro profitti e la loro rendita. Gli squilibri economici e sociali stanno cambiando il volto dell’Europa cresciuta nel mito del welfare universale e delle reti di protezione, con queste ultime che sono sempre più sfaldate ed incapaci di assicurare la tenuta dell’ordine sociale. Questo stato di cose, concreto e reale, certificato dai numeri impietosi, alimenta la percezione sempre più diffusa che le nostre società sempre più in crisi, siano assediate da nuovi nemici: ecco allora spuntare le Goro e le Vigevano, dove si fanno barricate contro migranti fuggiti dalla guerra e dalla povertà. La crisi ha così riattivato lo scontro tra gli ultimi, il senso diffuso che ci sia qualcuno più in difficoltà di te pronto a toglierti anche quel poco a cui avresti diritto. E poco importa se queste siano, per l’appunto, percezioni, rappresentazioni parzialmente distorte di una realtà fattuale effettivamente complicata e sempre più deteriorata. Queste percezioni e il bisogno di essere protetti dal “diverso” sono figlie del fatto che il criterio della cittadinanza, in base al quale si regola la vita di una comunità e che definisce chi ha diritto a cosa, in che proporzione e con quali modalità, è considerato dai “perdenti della globalizzazione” ormai svuotato, un concetto privo di senso. Una dimensione marginalizzata da quelle élite politiche ed economiche che sono considerate le responsabili di questo stato di cose e che sono l’oggetto di una rabbia popolare sempre più diffusa. Ecco come la rivendicazione di più diritti e tutele prenda la forma di una severa lotta con le élites politiche ed economiche, colpevoli di non aver garantito la prosperità dei propri paesi e di averne, di fatto, svuotato gli istituti democratici.

E veniamo così all’ultimo elemento che questi imprenditori politici rappresentano, i sentimenti. Rabbia, ostilità e odio sono termini che abbiamo volutamente espunto dal vocabolario della nostra politica, facendo finta che questi non esistessero. Fingendo che fossero sufficienti i racconti, le tanto decantate narrazioni, basate su una concezione idilliaca della società e dei rapporti tra individui. La positività e l’ottimismo contro la cupezza e la rabbia. Ciò non ha significato altro che nascondere sotto il tappeto i problemi e gli aspetti più drammatici del nostro tempo; fingere che gli ultimi non esistessero, fingere che i nostri sistemi politici ed economici non stessero silenziosamente espellendo milioni di individui dal centro del sistema.  Le élites invece di governare i conflitti che sono fisiologici nelle democrazie plurali e complesse, li hanno nascosti ed espunti dal dibattito pubblico, fingendo che fossero retaggio di un passato ormai lontano. Eppure, alla fine, rabbia e ostilità sono venute a presentare il conto, facendolo in modo deflagrante e pericoloso.

Trump potrà perdere queste elezioni ma ha capito quanto l’America profonda sia insoddisfatta e preoccupata; working class e classe media hanno visto in lui una risposta ad un establishment sempre più arroccato a difesa di un sistema che ha difficoltà ad accogliere queste paure e dare loro una risposta politica. Questo nonostante il fatto che gli USA escano da 8 anni di presidenza Obama in cui non si è lesinato un certo intervento pubblico per uscire dalla crisi economica: questo rende ancora più preoccupante il perché dell’appeal suscitato da Trump. L’incapacità di affrontare questa drammatica crisi di rappresentatività percorre anche l’Europa, dove il ritorno al nazionalismo, ai simboli di comunità, rappresenta la via più breve per rassicurare le masse degli esclusi e dei dimenticati. Dare a chi si sente abbandonato uno spazio identitario forte, che risponda allo spaesamento e che faccia sentire queste persone di nuovo protette ed ascoltate, sembra essere (di nuovo) la carta politica vincente.

A questo profondo sommovimento culturale, che ha radici lontane, i governi e i partiti mainstream non sono in grado di contrapporre nulla, salvo l’utilizzo un po’ sghembo e caricaturale del termine populista. Un modo per agitare lo spauracchio di una qualche possibile deriva antidemocratica. In realtà l’indebolimento nel funzionamento delle nostre democrazie è principalmente a carico di chi ha occupato negli ultimi decenni i ruoli di governo, e lo ha fatto imbracciando il modello di una competizione politico elettorale a bassa intensità, ossia non più basata sul confronto tra forti idee alternative della società che concorrono per il governo. I confini politici si sono offuscati, le proposte sono diventate sempre più intercambiabili e i luoghi decisionali si sono sempre più allontanati dai cittadini. In tutto questo la sinistra che teoricamente dovrebbe farsi carico delle istanze degli ultimi e dei più deboli, non solo si è dimenticata di loro e delle loro fragilità, ma li ha derisi indicandoli come l’esempio di una certa arretratezza e chiusura anacronistica delle nostre società. In realtà non ha fatto altro che consegnare questi strati della cittadinanza alla marginalità politica, rendendoli preda dei vari Trump e favorendo così una radicalizzazione delle posizioni politiche (come avviene, ad esempio, con il diffuso scontento verso la gestione del tema immigrazione e del dramma dei rifugiati).

Ecco perché i Trump in USA ed Europa otterranno comunque una vittoria: sono riusciti a riportare nel sistema chi dal sistema stesso era stato espulso e lo hanno fatto dettando l’agenda delle priorità politiche. Che essi siano inadatti a governare è sicuramente vero, ma sono in grado di dare ai cittadini che li sostengono una capacità di ascolto e di empatia profonda che i partiti tradizionali non riescono più a fornire. Tale capacità manca perché questi partiti non hanno più alcun legame con la società: non la capiscono e non la interpretano perché ne sono avulsi. Come puoi ascoltare chi non vedi perché è lontano da te? La retorica del governare e del decidere se non si conosce cosa accade nella realtà e se non si decide quale punto di vista abbracciare per cominciare a cambiare tale realtà è, per l’appunto, solo retorica. E la retorica vuota e stantia è qualcosa che sta fatalmente intossicando le nostre democrazie.

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