America

perché dopo queste primarie l’America non sarà più la stessa

17 Febbraio 2016

A due settimane dal “super martedì”, che forse non dirà chi le vincerà ma certo rivelerà chi è fuori dai giochi, è ormai chiaro che dopo queste primarie niente, in politica ma forse nella stessa società americana – e chissà’ nel mondo intero – sarà più come prima.
Si è detto molto, e a ragione, del profilo insolito dei due candidati ora in testa nei sondaggi.
Da una parte Donald Trump, l’uomo di cui non si sa se sia più improbabile la pettinatura o la proposta per gestire il controverso tema dell’immigrazione clandestina dal Messico (“let’s build a damn wall!“. E perché non anche un soffitto, già che ci siamo?). Solo tre anni fa, Donald fu inserito nella “Hall of fame” (ovvero il modo con cui gli americani in vari campi certificano e consegnano ai posteri l’eccellenza) della WWE, la principale federazione mondiale di pro-wrestling, per la quale ebbe un ruolo attivo, addirittura prendendo parte ad alcuni incontri, dal 1985 al 2013. Oggi il suo ritratto è appeso accanto a quelli di Hulk Hogan e Ultimate Warrior: un domani sarà anche tra George Washington e Abraham Lincoln? Per molti americani questo non sembra costituire necessariamente un problema.
Dall’altra Bernie Sanders, senatore del Vermont, terra di pellegrinaggio estivo di tutti gli hipsters new yorkesi. Oggi 74enne e quindi ipoteticamente 82enne al termine di un secondo mandato, sulla carta Sanders smentisce tutti gli stereotipi di quella comunicazione politica di seconda mano inseguiti alla lettera dai politicanti di casa nostra. Vecchio, scorbutico e senza camicia bianca con manica arrotolata, Sanders ha riacceso la passione del popolo che portò Obama al trionfo del 2008, dando origine a un fenomeno di massa addirittura superiore. Partito in sordina e senza appoggi di peso, con i grandi media americani schierati contro, per uno di quei miracoli impossibili da prevedere ex ante nell’immaginario collettivo Sanders è diventato l’underdog perfetto, lo sfavorito che sfida l’establishment armato solo della forza delle proprie idee. E siccome gli americani adorano gli underdogs – essenza dell’American Dream – ecco che ora il senatore, con un programma socialista che più socialista non si può (dovesse realizzare metà delle cose che dice, gli Stati Uniti andrebbero incontro al più grosso cambiamento della loro Storia dai tempi della Guerra Civile), si trova addirittura in testa e con ottime possibilità, secondo gli analisti, di rimanerci fino alla fine.

Tuttavia, a ben guardare, l’eccezionalità di queste primarie e la loro promessa di cambiare per sempre il rapporto degli americani con la politica sembra venire da più lontano. Come se Trump e Sanders non fossero la causa, ma la conseguenza di un cambiamento già avvenuto.
Una delle personalità più importanti del Novecento americano, ovvero Gore Vidal, scrisse una volta che il dibattito pre-elettorale tra Democratici e Repubblicani dal secondo dopo-guerra in poi era essenzialmente sempre lo stesso. I Democratici accusavano i Repubblicani di portare il Paese in Recessione. I Repubblicani accusavano i Democratici di trascinare il Paese in guerra.

Alla luce di questa chiave di lettura, si può immaginare come mai lo scenario politico attuale appaia così destabilizzato. Da un lato, l’amministrazione Bush ha guidato il Paese non solo verso la recessione (probabilmente inevitabile) ma soprattutto verso le due guerre più idiote di tutti i tempi. Non potendo smarcarsi da questa eredità, a destra nessuno predica più la vecchia politica isolazionista ma anzi, come si vede sulla questione dell’intervento via terra contro l’ISIS, ora gli interventisti sono diventati addirittura i Repubblicani, cui improvvisamente stanno a cuore le sorti del mondo, dopo anni a preoccuparsi solo dei tassi di interesse sulle rendite finanziarie.
Ma a proposito di rendite finanziarie, dall’altra parte della barricata Hillary Clinton, con i suoi numerosi benefattori tutti domiciliati a Wall Street, non è in grado di risultare credibile quando propone una piattaforma economica “populista”, orientata cioè – secondo l’accezione americana del termine – verso la spesa sociale e il bene comune delle persone alle prese con i postumi della crisi. Certo, le apparizioni negli show televisivi di moda nei quartieri radical-chic di Brooklyn (Broad City) le garantiranno l’appoggio di una Lena Dunham in perenne ricerca di visibilità. Ma il popolo del Mid-West, finora determinante in ogni vittoria democratica, prima legge dei bonifici ricevuti da Goldman Sachs per alcune centinaia di migliaia di dollari a botta, e poi le ride in faccia, non prendendola sul serio. E per convincerlo resta sempre meno tempo.

Insomma: i principali candidati mainstream (Hillary per i democratici, Jeb Bush per i Repubblicani, ora trattato alla stregua di un paria ma fino alla scorsa estate favorito assoluto) si trovano oggi privi di quella narrativa tradizionale sulla quale i due partiti hanno costruito la propria identità dal Dopoguerra ad oggi. Il risultato è che i favoriti sono una personalità televisiva da una parte e un socialista dall’aspetto identico al Larry David di Curb Your Enthusiasm dall’altra.

Trump. Sanders. O magari tutti e due. Dovessero farcela davvero, tanto il partito Democratico quanto quello Repubblicano dovranno stare attenti a non essere travolti, a prescindere dal risultato di novembre.

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