America
Orlando: quando a morire senza un perché sono i gay
In una ipotetica quanto assurda graduatoria delle stragi che stanno martirizzando i nostri giorni, i morti di Orlando valgono doppio. Più di quelli del Bataclan. Più di quelli del museo del Bardo.
Viene infatti colpita una minoranza che da sempre mette d’accordo tutti gli integralismi religiosi senza distinzioni, lasciando alle religioni socialmente utili (ve ne sono?) e socialmente apprezzate il compito di seminare nel frattempo surrettiziamente odio, ignoranza, disprezzo.
I gay sono il bersaglio facile, da sempre, sia che si sparino ingiurie o proiettili: un omicidio di massa che li riguardi può davvero essere rapidamente archiviato come una strage di serie B.
Gay, lesbiche, transessuali (o meglio, froci checche, ricchioni, faggots, maricones, perché è così che li chiamiamo “amichevolmente”…) quando muoiono ammazzati rischiano di lasciare in noi la stessa agghiacciante indifferenza suscitata da chi muore sui barconi, o da chi viene trucidato in paesi poveri e lontani. Sono un’ “altra cosa”. Sono diversi e a distanza sufficiente da non scalfire il nostro equilibrio esistenziale, sia che questa distanza si misuri in km o in usanze, credo, stili di vita.
La pietà ormai è un bene che scarseggia, inquinato dalla paura e dalla assuefazione; meglio tenersela buona per le occasioni che contano, quelle che si collocano cioè oltre ogni sospetto o presunta opacità morale. Era necessaria, quasi consigliata, per Charlie Ebdo, Parigi, Bruxelles; di nicchia e poco tiwittabile per gli eccidi di Boko Haran.
La pietà beffardamente presente in ogni sua declinazione di valore assoluto, dal Corano alla Bibbia passando per la Torah, come un vestito buono da sfoggiare sui social, va tassativamente dichiarata solo quando la minaccia è vicina geograficamente e culturalmente.
I nuovi martiri di Orlando purtroppo non hanno la faccia pulita (ed eterosessuale) di Valeria Solesin.
E se anche fra quei cinquanta e forse più cadaveri ci fosse il futuro Einstein, o anche solo uno studente bravo e promettente come la compianta Valeria, la sua natura inclinata storta ci risparmia in parte dall’ingrato fardello di dolercene più di tanto.
Potrà apparire una tesi ingenerosa e troppo militante pro gay e pertanto troppo contro ad una epoca in larga parte evoluta e tollerante che discrimina sempre meno per orientamento sessuale.
Niente di più falso e comodo. Dall’ indimenticato invito ad imbracciare i fucili di Adinolfi, ai pestaggi regolari, ai suicidi di adolescenti che non trovano il bandolo di una loro accettazione, tutto in un drammatico filo ci annoda ad una omofobia che è nel dna del nostro essere, nel 2016, “animali sociali”.
Per fare comprendere il perché questa ennesima carneficina debba interrogarci oltre alla drammatica contingenza del suo accadere, oltre alla ricerca delle sue vere motivazioni, bisogna eccedere anche nelle argomentazioni.
Del resto gli eccessi fanno parte dell’immaginario collettivo con cui percepiamo distortamente la comunità Lgbt.
Per fatale e casuale coincidenza ieri per le vie di Roma andava in scena il primo Pride del ” post Cirinna’”, una festa che per la prima volta rivendicava una conquista e se l’appuntava orgogliosamente al petto.
Per alcuni, anche fra gli stessi omosessuali, si è assistito, da Piazza della Repubblica al Colosseo, alla solita carnevalata non priva di attacchi gratuiti al “buon gusto”.
Lo stesso buon gusto che non può venire scosso più di tanto dal fatto che un pazzo fanatico abbia ammazzato più di 50 persone e altrettanto ne abbia ferite gravemente. La placida isola dei “buongustai” confina con quella altrettanto idilliaca dei “benpensanti”; in mezzo però esiste un mare di domande che andrebbe attraversato.
Barak Obama nel suo messaggio alla nazione ha sostenuto di come l’odio si sconfigga con l’amore, di come la paura non debba diventare una spirale che ci risucchia. Belle, bellissime parole. Ma se a morire sono i gay queste parole rischiano di evaporare prima del solito. Donald Trump ha subito condannato l’accaduto perché l’accaduto si prestava strumentalmente a confermare la validità della sua posizione xenofoba e intollerante a prescindere. Nessun accenno al fatto che a morire stavolta siano stati degli omosessuali; in questo “omissis” voluto si cela un imbarazzo che non è però purtroppo solo patrimonio del suo comprovato becerume, e sul quale va intrapresa una decisa azione di disvelamento.
Se vogliamo davvero onorare queste vittime innocenti di una follia sempre più presente nei nostri giorni, proviamo innanzitutto a sradicare l’omofobia che in quota parte, per cultura, educazione o solo per lassismo ci portiamo dentro.
Se ci urtano due ragazzi che si tengono per mano, chiediamocene il perché, profondo o superficiale che sia, e togliamolo di mezzo una volta per tutte.
Se un uomo vestito solo di un boa colorato sopra un carro ci fa schifo, pensiamo al fatto che forse anche noi abbiamo fatto schifo a qualcuno quando abbiamo tentato di essere noi stessi e non ci è stato consentito. Forse avremmo dovuto pure noi montare su un qualche tipo di carro reale o virtuale e gridare che esistevamo a prescindere dal giudizio degli altri, e se forse poi davvero l’avessimo fatto, ora, magari, sapremmo disegnare col pensiero e abbracciare con lo sguardo prospettive più aperte e rasserenate.
Le morti del Pulse valgono doppio perché doppio o triplo è lo sforzo che ci chiedono: indignarci per l’ennesima strage di innocenti, non soccombere alla paura e infine riaprire il capitolo della lotta alla omofobia come elemento di evoluzione collettiva e individuale, come recupero di una tensione illuminista verso il miglioramento del nostro “essere” qui e adesso.
Scrivere #jesuisPulse risulta sicuramente meno semplice che scrivere #jesuisCharlie.
Ma andrebbe fatto e fatto fare, per onorare chi muore ancora oggi per la sola colpa di essere quello che è, in un tempo in cui morire senza un perché sta diventando una abitudine.
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