America
Obama a Cuba tra speranze e timori
Il presidente americano, Barack Obama, è appena atterrato a Cuba. L’ultimo inquilino della Casa Bianca a visitare l’isola fu il repubblicano Calvin Coolidge, nel 1928, in un periodo di forte prosperità economica per il territorio (grazie alle esportazioni di zucchero): un periodo segnato dalla volontà da parte di Washington di tirarsi fuori dalle problematiche geopolitiche di quell’area. Oggi, Obama compie un passo storico, a cinquantasei anni dall’embargo comminato da John F. Kennedy nei confronti del regime di Fidel Castro. Una visita attesa, che dovrebbe portare il disgelo tra i due paesi, consentendo quindi una normalizzazione dei rapporti diplomatici.
Il lavoro per arrivare a tanto è stato lungo. Ed è durato ben quindici mesi. Obama ha fatto la prima mossa, rimuovendo Cuba dalla lista dei paesi considerati sponsor del terrorismo (al cui interno era stata annoverata negli anni ’80 da Ronald Reagan): un cambio di rotta decisivo, in nettissima controtendenza con la politica neoconservatrice della precedente amministrazione, secondo cui l’isola sarebbe invece rientrata a pieno titolo nei territori del cosiddetto Asse del Male. Da qui, anche attraverso la mediazione del Vaticano, è ripreso il dialogo tra i due paesi. In particolare, pochi giorni fa, Washington ha allentato le restrizioni sui viaggi nell’isola, abolendo inoltre il divieto di usare il dollaro nelle transazioni cubane.
L’attesa adesso è per una definitiva normalizzazione dei rapporti diplomatici, che il presidente americano vorrebbe vedere prima della scadenza del suo ultimo mandato (a gennaio del 2017), facendone quasi una questione di eredità politica. “Si tratta di una visita storica e di un’opportunità storica“, ha scandito il presidente nel pomeriggio. Non c’è dubbio che questo viaggio vada nella direzione dell’evento epocale. Senza contare poi gli interessi economici di numerose aziende statunitensi, che avrebbero tutta l’intenzione di investire a Cuba (nonostante -ha recentemente notato il New York Times – il regime castrista stenti a snellire i propri spesso insormontabili paletti burocratici). Ma l’ostacolo maggiore resta comunque l’embargo. Voluto da Kennedy nel 1962, dopo il disastro della Baia dei Porci, questo provvedimento può essere formalmente abolito soltanto dal Congresso. Un Congresso che risulta per il momento tuttavia a maggioranza repubblicana, in un periodo – quello elettorale – abbastanza delicato.
E d’altronde la questione cubana ha proprio nelle ultime settimane tenuto banco in seno al dibattito politico per le presidenziali del 2016. L’ala neocon, rappresentata dall’ormai ex candidato Marco Rubio, si è detta risolutamente contraria ad un’apertura verso Cuba, in forza della natura anti-democratica del suo regime e incassando per questo l’appoggio delle associazioni anti-castriste particolarmente forti in Florida.
Decisamente aperturisti invece appaiono Bernie Sanders e Donald Trump. Il primo si è detto favorevole ad una rimozione dell’embargo, asserendo che soltanto così si potranno creare le condizioni concrete per una democratizzazione del paese. Ha poi sostenuto la necessità di riconoscere quanto di buono l’isola avrebbe prodotto, a partire dal suo sistema sanitario. Trump, dal canto suo, come con la questione israeliana, avanza anche qui l’ipotesi di un accordo, respingendo al momento ogni approccio muscolare e bellicistico.
Più ambigua appare invece la posizione di Hillary Clinton. Pur avendo recentemente difeso l’apertura verso Cuba, l’ex first lady ha costantemente mantenuto un approccio piuttosto aggressivo verso gli storici nemici dell’America. E soprattutto sulla questione dell’embargo cubano non ha mai mantenuto una posizione nettamente lineare.
Nel 1996, il marito Bill Clinton siglò l’Helms-Burton Act, secondo cui l’imposizione dell’embargo sarebbe durata sin quando l’isola non avesse concesso libertà politica e di parola. Una posizione fatta propria da Hillary nel 2000, durante la campagna per l’elezione in Senato: in un discorso tenuto presso il Council on Foreign Relations, l’ex first lady infatti dichiarò:”Non mi sento pronta a rimuovere l’embargo“. La situazione non cambiò in occasione delle primarie democratiche del 2008: quando Obama affermò di voler incontrare Fidel Castro, Hillary gli rispose duramente dandogli dell’ “irresponsabile e dell’ingenuo“. Sempre in quella corsa elettorale, l’ex first lady attenuò poi un poco la sua posizione, dicendosi pronta ad aprire a Cuba solo nel caso in cui Castro avesse concesso una svolta democratica.
Il resto è storia recente. Tra il 2014 e il 2015, Hilary ha iniziato a definire inutile l’embargo, arrivando a sostenere la sua completa abolizione. Ciononostante, ha ultimamente intimato una svolta democratica al regime castrista. Il punto sarà allora capire quanto una eventuale presidenza Clinton possa decidere di seguire la linea tracciata da Obama in questi mesi. L’ex segretario di Stato è un notorio falco in politica estera. E chissà che, una volta allo Studio Ovale, anziché l’attuale presidente non scelga di seguire la sua vecchia anima. Dura. Bellicosa. Vagamente neoconservatrice.
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