America
La sfida fra Clinton e Trump corre sui vicepresidenti
Concluse le convention e con l’approssimarsi del voto di novembre, Donald Trump e Hillary Clinton hanno ormai scelto i nomi dei propri running mate: i candidati alla vicepresidenza che li accompagneranno nello scontro diretto per la conquista della Casa Bianca.
Ogni volta, la scelta del vice riveste un’importanza fondamentale nella corsa per le elezioni presidenziali statunitensi. E’ vero: spesso si ripete che quella del vicepresidente risulti una figura minore, incarnando una carica sostanzialmente onorifica e priva di potere concreto. Tuttavia, se sotto alcuni aspetti le cose stanno effettivamente così, dall’altra parte è altrettanto indubbio che si tratti di un fattore comunque decisivo. E principalmente per due ragioni. Innanzitutto, perché la scelta del vice ha generalmente delle ricadute concrete negli equilibri interni al partito. In secondo luogo, non bisogna poi dimenticare quanto disposto dal XII Emendamento: ovvero che, nel caso il presidente si trovi per qualsiasi ragione impossibilitato a svolgere le proprie prerogative, è il vice a prenderne di diritto il posto. E’ stato per questo d’altronde che nella Storia americana alcune figure in origine tutto sommato di secondo piano si sono improvvisamente ritrovate nella stanza dei bottoni: si pensi soltanto al 1945, quando Harry Truman subentrò al defunto Franklin D. Roosevelt, o al 1974, quando Gerald Ford sostituì un dimissionario Richard Nixon. E’ così che dunque la scelta dei rispettivi vice getta una luce non indifferente sulle strategie adottate dai due principali candidati alla Casa Bianca: strategie che nelle prossime settimane saranno messe a dura prova, dato l’esito ancora tutto da scrivere di questa campagna elettorale.
Donald Trump ha puntato su Mike Pence. Cinquantasettenne governatore repubblicano dell’Indiana, Pence rappresenta l’ala conservatrice del partito repubblicano. Un’ala conservatrice che – nel corso delle primarie – non ha mai mostrato eccessiva simpatia nei confronti del magnate newyorchese e che si era in buona parte compattata attorno alla figura del senatore texano, Ted Cruz. Attraverso Pence, Trump cerca quindi di gettare un ponte verso quella destra dura e pura che lo ha sempre considerato una sorta di liberal camuffato, pronto a svendere l’ortodossia valoriale dell’elefantino. Una sorta di pacificatore, che dovrebbe svolgere un ruolo analogo a quello portato avanti da altri nomi importanti della galassia repubblicana: dall’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani, al governatore del New Jersey, Chris Christie.
Il punto sarà capire se l’opzione Pence si rivelerà corretta: anche perché le incognite non sono poche. Innanzitutto Pence è rappresentante di uno Stato, l’Indiana, che a novembre voterà già di per sé quasi automaticamente repubblicano. In secondo luogo, per quanto non propriamente sconosciuto, il personaggio non risulta poi eccessivamente noto ad ampi strati elettorali statunitensi. Infine, non bisogna dimenticare alcuni punti di divergenza programmatica che il governatore ha con Trump: in particolare, è uno strenuo fautore dei trattati internazionali di libero scambio, una posizione che certo mal si concilia con il protezionismo incallito del creso Donald. Voci di corridoio inoltre sostengono che tra i due non ci sia chissà quale simpatia personale. E’ pur vero tuttavia che storicamente vi siano stati ticket vincenti, pur costituiti da personalità differenti e addirittura rivali (si pensi soltanto al sodalizio tra Ronald Reagan e George Herbert Bush negli anni ’80).
Situazione differente sul fronte democratico. Spiazzando diversi analisti, Hillary Clinton ha puntato su Tim Kaine: senatore ed ex governatore della Virginia, Kaine si è sempre collocato su posizioni abbastanza centriste in seno al partito dell’asinello. Pur avendo sostenuto Barack Obama nel 2008, non si tratta di una figura ideologicamente lontana dal classico moderatismo clintoniano: ragion per cui, la sua scelta manifesta una chiara volontà di virare al centro da parte dell’ex first lady. Dopo aver difficoltosamente conquistato la nomination contro il socialista Bernie Sanders, Hillary volta quindi pesantemente le spalle alla sinistra del suo partito, lasciando a bocca asciutta la senatrice liberal Elizabeth Warren e il senatore radicale Sherrod Brown (un tempo considerati entrambi papabili candidati alla vicepresidenza). E difatti l’ex first lady condivide diversi punti programmatici fondamentali con Kaine: non soltanto una linea da falco in politica estera ma – soprattutto – un sostanziale appoggio ai trattati internazionali di libero scambio (un punto su cui Sanders ha vigorosamente polemizzato per tutto il corso delle primarie).
Da tutto questo si evince come la strategia di Hillary sia – sotto questo aspetto – quasi antitetica a quella promossa da Trump. Scegliendo Kaine, l’ex segretario di Stato punta evidentemente a isolare l’ala radicale del suo partito, cercando al contempo di attrarre i voti moderati di destra e di sinistra. Un centrismo che tenta di ricalcare gli schemi che portarono il marito Bill alla vittoria nel 1992 (il quale non a caso scelse come running mate Al Gore, una figura a lui ideologicamente affine). Sennonché, rispetto ad allora, la situazione oggi è profondamente mutata. All’epoca l’America presentava un’economia vigorosa, cui si legava un elettorato in maggioranza moderato e conseguentemente ben disposto verso la Third Way clintoniana. Oggi, al contrario, la condizione economica appare malata, mentre fette sempre più ampie dell’elettorato tendono a radicalizzarsi e a vedere proprio in quel liberismo l’origine di tutti i loro mali. Se tradizionalmente arriva alla Casa Bianca chi punta al centro, è altrettanto vero che quest’anno le cose potrebbero cambiare drammaticamente. D’altronde, il successo nel corso delle primarie di candidature anti-sistema e tendenzialmente protezioniste come quelle di Trump e Sanders manifestano una trasformazione profonda nelle quote elettorali americane.
Mike Pence e Tim Kaine non incarnano oggi una effettiva rottura con il passato. Entrambi sono classici figli dei partiti da cui provengono e – su determinate questioni – i due potrebbero addirittura andare d’accordo (basti pensare all’economia). Il punto è che però quelle di questo 2016 non sono elezioni come le altre. E con i vecchi schemi ormai saltati, il ruolo di entrambi è destinato a farsi arduo e incerto. Se quattro anni fa i candidati vice si rivolgevano a bacini elettorali tutto sommato cristallizzati (Joe Biden ai centristi, Paul Ryan ai conservatori), oggi si assiste a una fluidità senza precedenti. Su cui aleggia l’imprevedibile incognita di Donald Trump.
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