America
Mezzogiorno di fuoco: Marco Rubio vs Ted Cruz
L’ultimo dibattito televisivo tra i candidati repubblicani, tenutosi martedì scorso a Las Vegas, ha confermato una volta di più l’ascesa di Marco Rubio e Ted Cruz: i due senatori quarantenni che sembrano avviarsi ad essere i veri protagonisti delle primarie che si apriranno il prossimo febbraio. Una possibilità che tende a farsi sempre maggiormente realistica, soprattutto nel caso che Donald Trump non riuscisse a concretizzare elettoralmente il proprio attuale vantaggio sondaggistico e Jeb Bush non risultasse in grado di spiccare un volo ormai sempre più improbabile.
Ed ecco allora che il dibattito di martedì ha ospitato un cruento duello proprio tra Rubio e Cruz, che si sono scontrati direttamente su diverse questioni, lasciando sostanzialmente gli altri rivali a scannarsi tra loro o a lanciare improperi contro Obama e Hillary Clinton. I due giovani senatori puntano diritti alla nomination: e sanno perfettamente come – soprattutto in questa fase – l’appoggio delle frange conservatrici risulti essenziale. Un problema non di poco conto, che sta portando entrambi a cercare di cucirsi addosso l’immagine del destrorso duro e puro. Una competizione di celodurismo, che si gioca tra i miti del pantheon repubblicano (da Ronald Reagan a Clint Eastwood).
Da una parte Cruz: il combattente, colui che sin da subito è sceso in campo come campione del conservatorismo. Il “paladino della verità” che vuole farla pagare agli inciuci di Washington e al politically correct dei liberal. Dall’altra Rubio: il sognatore, figlio di immigrati cubani, che vuole far risorgere il sogno americano, attraverso una visione audace di speranza che assicuri agli Stati Uniti un New American Century. Il primo, radicale. Il secondo, storicamente più moderato, cresciuto nell’alveo centrista dei Bush. Proprio per questo, se Cruz potrebbe risultare avvantaggiato nella corsa per la nomination, è Rubio che – al contrario – possiede le chances maggiori in sede di general election. Ma la partita è aperta e i due hanno iniziato a battibeccare proprio per cercare di accreditarsi davanti all’elettorato radicale. Su alcuni punti rilevanti.
Innanzitutto, l’immigrazione: tema complesso in seno a questa campagna elettorale, soprattutto a seguito delle proposte radicali avanzate in questi mesi da Donald Trump (deportazione di 11 milioni di irregolari e costruzione di un muro difensivo al confine con il Messico). Tema scivoloso in particolare per Rubio, da sempre aperturista sulla questione: come Jeb Bush è difatti favorevole acché ci sia la possibilità per i clandestini di avviare un percorso finalizzato all’acquisizione della cittadinanza. Posizione, quest’ultima, che Cruz gli ha prontamente rinfacciato, accusandolo di essere troppo blando e incapace di rappresentare adeguatamente le istanze dell’elettorato conservatore. Rubio ha replicato accusando l’avversario di incoerenza e di aver votato nel 2013 un provvedimento che consentirebbe comunque ai clandestini l’acquisizione di un legal status. Cruz nega energicamente e sostiene di essere sempre stato contrario a ogni forma di legalizzazione e amnistia, accusando Rubio di “confondere le acque”.
Altro terreno di scontro tra i due è poi lo USA Freedom Act, la recente normativa che limita l’accumulo di dati da parte della National Security Agency (depotenziando in questo modo il Patriot Act). Rubio, lasciando qui emergere il proprio storico orientamento neoconservatore, critica la legge: tacciandola di pericolosità per la sicurezza nazionale. Cruz, da parte sua, si colloca su un fronte libertarian più vicino al Tea Party (e supportato anche da Rand Paul), per cui sarebbe giusto limitare il potere federale nella raccolta di informazioni sui privati cittadini. La questione è spinosa e si avvia ad essere argomento centrale di dibattito nei prossimi mesi.
Infine la foreign policy. Grande cavallo di battaglia di Rubio (che è attualmente membro della Commissione Esteri al Senato), rappresenta invece il punto debole di Cruz: inesperto e generico in materia. Inoltre, la divergenza tra i due si gioca proprio sugli orientamenti. Interventista neocon, Rubio. Più cauto e tendente all’isolazionismo, Cruz. Per quanto, anche quest’ultimo si sia recentemente scoperto falco, promettendo “bombardamenti a tappeto” contro lo Stato Islamico. Sennonché Rubio lo ha fulminato, accusandolo di fare demagogia: perché non si possono seriamente supportare interventi bellici efficaci, quando poi al Congresso si vota per tagliare i fondi alla spesa militare. Touchè!
Al di là delle singole posizioni sostenute, la strategia generale seguita dai due rivali è chiara. Cruz mira a presentare il nemico cubano come inadeguato ad incarnare i valori conservatori, tacciandolo di centrismo. Rubio, dal canto suo, è più subdolo, tentando evidentemente di colpire Cruz al cuore: annientare tutta la sua campagna fondata sul principio della verità, additandolo come un bugiardo e un incoerente (soprattutto sul problema dell’immigrazione).
I due galli cercano di prendersi la scena delle prossime primarie. Ed è assai probabile che riusciranno ad emergere come i principali contender nella conquista per la nomination repubblicana. Ma non si dia nulla per scontato. Innanzitutto c’è difatti la possibilità che i due finiscano per logorarsi reciprocamente. Ma soprattutto: attenzione ad eventuali exploit. Per quanto attualmente debole, non è detto che Jeb Bush non possa imporsi all’improvviso (un po’ come accadde a John Kerry nel 2004 in occasione delle primarie democratiche). E lo stesso Chris Christie (che fino a qualche settimana fa sembrava spacciato) potrebbe rivelarsi più forte del previsto (soprattutto in New Hampshire). Senza infine dimenticare l’incognita di Donald Trump.
La strada è ancora lunga. Ma, secondo alcune indiscrezioni, dalle parti dello staff di Hillary inizierebbe a serpeggiare un certo timore. Pare verso un cubano. E non si chiama Fidel Castro.
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