America

Mapuche, più repressione con Boric

23 Febbraio 2024

L’8 gennaio 2021, giorno della sentenza al processo contro i Carabineros che hanno ucciso Camilo Catrillanca, della comunità di Temucuicui, Paola Dragnic, giornalista di TeleSur, riferendosi alla figlia di Camilo, Wakolda, ha commentato con queste parole : “Ora ha 7 anni. Hanno ucciso suo padre quando lei ne aveva 5. Lei cresce in mezzo a bombe e spari. Oggi, quando ha solo 7 anni, è andata con sua madre e sua nonna ad ascoltare che finalmente verrà fatta un po’ di giustizia. Il giudice stava per dire che la persona che ha ucciso suo padre era colpevole. Ma non ha potuto arrivarci. Centinaia di poliziotti hanno impedito loro di passare, hanno buttato a terra la madre, la nonna. Lei, piccola e spaventata, è stata presa da quattro di loro e fatta dirigere verso un’auto della polizia. Sono passate ore prima che venissero rilasciati. Se quella ragazzina, tra circa 10 anni, si ribellerà allo Stato del Cile, vorrà soltanto dire che lo Stato avrà raccolto ciò che ha seminato, lo Stato che non solo l’ha lasciata orfana ma l’ha violata più e più volte davanti a un paese stupito dalle feste dei cuicos [arricchiti, snob] di Cachagua e non per il dolore della piccola Wakolda”.

Sono passati gli anni e sono cambiati i governi, ma, più o meno nascoste, le violazioni e la repressione subite dal popolo Mapuche, sia nella comunità di Temucuicui che nelle centinaia di altre comunità che stanno tentando di riconquistare i territori dei loro avi, non si sono fermate. I metodi di repressione sono vari e comprendono la violenza fisica e psicologica. Non è un caso che in una cittadina piccola come Ercilla i soldi dello Stato vengano spesi per sistemare delle videocamere.

“Il Grande Fratello ti sta guardando” era uno degli slogan di 1984, il romanzo di George Orwell: la trama è ambientata in Oceania, un paese dominato da un governo totalitario che tiene i suoi cittadini sotto costante sorveglianza e si ostina persino a spiare i loro pensieri per mantenere l’ordine. Il controllo è una violenza psicologica che i Mapuche spesso subiscono: le telecamere di Ercilla, per fare un esempio non sono installate davanti a banche o uffici amministrativi, come solitamente accade nelle città comuni, ma sono collocate su un percorso isolato, che collega la località di Ercilla con l’ingresso della comunità di Temucuicui: in questo modo i Carabineros possono controllare le entrate e le uscite di tutti i membri delle Comunità. La ragione? Nessuna, a parte molestare un popolo già abbastanza oppresso.

Purtroppo non sono solo il controllo o la minaccia psicologica l’arma che i Carabineros utilizzano per intimidire il popolo mapuche: anche la repressione fisica è sempre attuale e non si è fermata con l’ascesa al potere del governo di sinistra di Gabriel Boric. Al contrario, è ancora in vigore lo Stato d’eccezione, i militari continuano a “sostenere” insieme ai Carabineros la nuova pacificazione dell’Araucanía, che ha ben poco sapore di pace. Se alla fine del 1800 i cileni erano i nemici del popolo mapuche, oggi sono le potenti famiglie delle compagnie forestali e dei grandi proprietari terrieri agricoli a voler prendere il controllo di questi territori atavici per dedicarsi allo sfruttamento tipico di una società neoliberale.

Condanne e prigionieri politici con Boric aumentano

Durante il governo Boric le condanne contro i mapuche sono aumentate: condanne sempre più lunghe, da 20, 30 a 42 anni per un comunero della comunità di Temucuicui condannato per tentato omicidio contro i Carabineros, una delle accuse più comuni tra quelle che sono state mosse nei confronti dei mapuche. Spesso i processi per raggiungere un verdetto impiegano anni: nel mentre i mapuche sono confinati in unità carcerarie a loro dedicate, quando sono fortunati. Angel Nicolás Marillan Cayul, prima di essere trasferito nelle unità dedicate ai mapuche e che prevedono il rispetto della loro cultura, ha dovuto aspettare diversi mesi. Angel Nicolas è solo imputato, l’attesa della sentenza potrebbe durare anni e nel mentre lui è in carcere a soli 19 anni. La sua colpa è aver investito accidentalmente un’auto del Commando Giungla che si nascondeva nel suo terreno e per questo rischia fino a 25 anni di carcere.

Non è un segreto:in Cile esiste il carcere politico, nonostante l’insistenza con cui chi detiene il potere continua a negarlo. Sia i politici di destra che quelli di sinistra ripetono in continuazione che in Cile non esiste il carcere politico ma solo prigionieri per crimini comuni. Attualmente, sparsi nelle carceri delle regioni del Biobío, Araucanía e Los Ríos si trovano più di 100 prigionieri politici mapuche.

Ora, nel caso dei prigionieri politici mapuche, si tratta di persone private della libertà e accusate non solo di vari crimini, ma anche per le loro opinioni o azioni riguardo alla realtà che esiste nel territorio mapuche. Numerosi sono anche i casi di condanne supportate da prove dubbie. In generale, nel sistema penale una persona deve essere condannata quando il crimine è dimostrato “al di là di ogni ragionevole dubbio”, ma in molti casi di mapuche condannati la fondatezza delle prove è fortemente “dubbia”.

Il diritto all’autodeterminazione

Il conflitto tra lo Stato cileno e i comuneros mapuche affonda le sue radici nella volontà di questo popolo di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione e al recupero della terra dei loro antenati, terra che attualmente è usurpata per essere sfruttata dalle grandi aziende forestali ed essere coltivata intensivamente dai latifondisti agricoli.

Il governo Boric, per agevolare la carcerazione del popolo mapuche, ha recentemente approvato un’ultima legge rivolta, pur indirettamente, contro di loro: la Legge sull’Usurpazione. Questa nuova legge sancisce pene detentive per usurpazione “violenta” fino a 5 anni, punisce l’usurpazione con danneggiamento alle cose con pene fino a tre anni, crea una nuova tipologia di usurpazione residua punita con multe o reclusione fino a 540 giorni, a seconda delle circostanze.

Tutto questo per limitare o evitare la discussione sul diritto all’autodeterminazione.

Gli Stati, i giudici delle corti internazionali e i professori di diritto internazionale concordano sul fatto che il diritto all’autodeterminazione ha raggiunto lo status di jus cogens. Ciò significa “norma accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli Stati nel suo insieme come norma che non ammette accordo contrario”.

Il diritto all’autodeterminazione consiste nella capacità delle persone di decidere del proprio destino politico. Ciò include l’esercizio esterno del diritto di autodeterminazione (decidere sulla secessione o sull’unificazione) e l’esercizio interno dello stesso (decidere sul grado di integrazione in uno Stato). L’esercizio del diritto all’autodeterminazione implica l’eguale partecipazione di un popolo al processo decisionale, in un dialogo continuo in cui le parti adattano e riadattano i loro rapporti per il reciproco vantaggio. L’autodeterminazione è un’espressione della dignità umana come diritto umano nella sua dimensione olistica – collettiva e individuale.

Il principio di integrità territoriale non può essere utilizzato come pretesto per indebolire la responsabilità dello Stato di proteggere i diritti umani dei popoli sotto la sua giurisdizione. Il diritto all’autodeterminazione è un diritto riconosciuto dai popoli in quanto titolari del diritto, e non è prerogativa dello Stato concederlo o negarlo, nemmeno in base al principio di integrità territoriale, a meno che non vi sia ingerenza esterna. In caso di conflitto tra il principio di integrità territoriale e il diritto umano all’autodeterminazione, è quest’ultimo a prevalere.

I rapporti tra lo Stato cileno e mapuche in discussione all’ONU

Tra poche settimane alle Nazioni Unite avrà luogo la 140° sessione del Comitato per i Diritti Umani. Il Cile farà parte dei paesi esaminati. Se lo Stato ricapitolerà il “lavoro” svolto in questi anni, sono diversi gli organismi che presenteranno un resoconto cosiddetto “alternativo” proveniente dalla società civile per contrastare e magari completare le informazioni trasmesse dal governo cileno.

Il Comitato per i Diritti Umani è l’organismo di esperti indipendenti che monitora l’attuazione del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici da parte dei suoi Stati-membri. Tutti gli Stati-membri devono presentare rapporti periodici al Comitato sul modo in cui vengono esercitati i diritti sotto la loro giurisdizione. Il Comitato esamina ciascun rapporto ed esprime le proprie preoccupazioni e raccomandazioni allo Stato-membro sotto forma di “osservazioni conclusive”.

Durante questa sessione numerose organizzazioni denunceranno, attraverso i cosiddetti “rapporti alternativi”, le violazioni dei diritti umani che continuano a essere perpetrate in Cile dopo la sua “transizione alla democrazia”.

Tra le violazioni denunciate particolare attenzione viene posta a quelle commesse dallo Stato durante la Rivolta Sociale del 2019, ma anche nei confronti del popolo mapuche.

“Dal 2009 lo Stato del Cile è firmatario della Convenzione 169 dell’ILO, uno strumento con cui le Nazioni Unite proteggono i diritti culturali, linguistici e territoriali dei popoli indigeni e che comprende anche norme internazionali come il Forum Permanente sulle Questioni Sociali. (2000), il rapporto del Relatore Speciale sui Diritti dei Popoli Indigeni (2002) e il Meccanismo di Esperti sui Diritti dei Popoli Indigeni (2007), la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni (2007), e la Dichiarazione Americana sui diritti dei popoli indigeni (2016). Il Cile si assume quindi l’obbligo di “recepire questi diritti nelle normative nazionali, nonché di rispettarli, promuoverli e garantirli”, afferma il rapporto della Commissione Etica contro la Tortura (CECT). “Nei processi contro i membri delle comunità non viene garantito l’esercizio effettivo del diritto alla difesa: vengono accusati con testimoni incappucciati, definiti “senza volto”, molti dei quali sono agenti di polizia; a ciò si aggiungono una serie di “prove” di cui non è possibile verificare la veridicità, legittimando la magistratura a mettere in atto vere e proprie montature contro membri delle comunità e attivisti della causa indigena, sapendo che è impossibile ottenere perizie di esperti indipendenti per smontare le ingiuste accuse; tutto ciò si è recentemente tradotto in pesanti condanne in cui non vi è alcuna prova evidente di partecipazione ai fatti oggetto delle accuse”.

“A livello delle condizioni carcerarie, si può notare che all’elevato sovraffollamento delle strutture si aggiungono le azioni razziste del personale carcerario e del resto dei detenuti comuni, che in molti luoghi hanno significato aggressioni contro i familiari in visita, discriminazioni e abusi che si esprimono nella perquisizione dei loro effetti personali e degli indumenti, al punto che la Corte d’Appello di Concepción si è recentemente pronunciata a favore delle famiglie e ha incaricato il personale della Gendarmeria di essere formato alla comprensione e all’applicazione della Convenzione 169, dato che proibivano ai familiari in visita persino di indossare gli abiti tradizionali. Per la cultura di queste persone, disperse nelle varie strutture in cui sono detenute,, non c’è alcun riguardo; la dispersione e la lontananza dai territori di origine rendono impossibile per le loro famiglie, la stragrande maggioranza delle quali dispone di risorse limitate, visitarli e mantenere legami affettivi e familiari, fatto che costituisce un’ulteriore punizione che si somma alle misure di privazione della libertà imposte loro dalla legge. Né sono messi in condizione di svolgere le loro pratiche spirituali, ricevere il cibo e praticare gli usi e i costumi tipici della loro tradizione” conclude il rapporto della CECT.

La 140° sessione del Comitato per i diritti umani si svolgerà dal 4 al 28 marzo di quest’anno presso la sede delle Nazioni Unite a Ginevra, in Svizzera. La situazione dello Stato del Cile verrà esaminata il 5 e il 6 marzo e le raccomandazioni finali saranno espresse nella mattinata del 22.

 

Pubblicato sulla Newsletter di PuntoCritico.info del 23 febbraio 2024.

 

 

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