America
L’ultima battaglia di John McCain
Martedì 8 novembre non si voterà soltanto per la presidenza degli Stati Uniti. Elezioni fondamentali si terranno anche per il rinnovo di parte del Senato federale: un appuntamento importantissimo per gli equilibri politici in seno al Congresso dei prossimi due anni. Dopo le ultime mid term elections dello scorso 2014, i democratici stanno disperatamente cercando di riconquistare almeno una delle due camere, laddove i repubblicani giocano sulla difensiva, tentando di blindare una maggioranza dal futuro incerto. L’incognita maggiore si chiama ancora una volta Donald Trump: mai come quest’anno infatti la corsa elettorale per le presidenziali sarà destinata a pesare profondamente su quella per il Senato, benché non si comprenda al momento in che termini ciò avrà luogo. Soprattutto per il Grand Old Party.
Da una parte, non pochi senatori repubblicani in cerca di rielezione temono effetti negativi da parte di un Trump da molti considerato nient’altro che un populista, sostanzialmente alieno agli autentici valori dell’elefantino. Dall’altra, il radicalismo espresso dal miliardario newyorchese su molti temi (a partire dall’immigrazione) sta spingendo in svariati Stati l’emergere di candidati oltranzisti che – in parte sulla scia del vecchio Tea Party – sperano di sbarcare al Congresso per mettere i bastoni tra le ruote all’odiatissimo establishment repubblicano.
Anche per questo, alcuni senatori in cerca di rielezione starebbero tentando di smarcarsi il più possibile dal radicalismo del fulvo magnate, cercando di separare la corsa senatoriale da quella presidenziale (secondo un modello di competizione elettorale già parzialmente sperimentato nel 1996, quando diversi senatori decisero di scindere i propri destini da quelli dell’allora candidato repubblicano alla Casa Bianca, Bob Dole, dato per sconfitto già in partenza). Una situazione abbastanza spinosa per Trump che, se da una parte potrebbe avere bisogno di queste teste calde in caso di eventuale conquista dello Studio Ovale, dall’altra non può tuttavia inimicarsi troppo le alte sfere dell’elefantino. In altre parole, se da una parte un’eventuale presidenza Trump non può permettersi il rischio di un Congresso ostile, dall’altra è altrettanto indubbio che la conquista della Casa Bianca non possa prescindere dall’appoggio organizzativo del GOP (soprattutto in termini di capillarità territoriale).
Caso esemplificativo di questa situazione tumultuosa in seno all’elefantino è quello dell’Arizona. Qui, il prossimo 30 agosto si terranno le primarie repubblicane per scegliere lo sfidante che a novembre se la dovrà vedere con la candidata democratica, Ann Kirkpatrick. E nessuno Stato come l’Arizona riesce forse a esemplificare l’attuale terremoto che sta scuotendo il partito repubblicano in termini politici, d’immagine e di valore. Anche perché protagonista indiscusso della partita torna ad essere uno degli uomini più rappresentativi del GOP: John McCain.
Prigioniero di guerra durante il conflitto vietnamita, è senatore repubblicano per l’Arizona dal 1987, quando prese il posto dell’ultraconservatore Barry Goldwater. Esperto di politica estera, non è mai stato eccessivamente amato dalle ali più radicali dell’elefantino, che lo hanno costantemente considerato un maverick sinistrorso, pericolosamente tendente all’inciucio col nemico democratico. Al di là di posizioni decisamente interventiste e bellicose sul piano delle questioni internazionali, McCain non si è mai infatti distinto per idee eccessivamente reaganiane in economia. Senza poi contare la sua scarsa ortodossia sul fronte eticamente sensibile, che gli è costata a più riprese l’acrimonia della destra evangelica (destino che ha tra l’altro condiviso con Rudy Giuliani).
Candidatosi due volte alla presidenza, non ha avuto fortuna. Nel 2000, si presentò alle primarie repubblicane, restando fulminato dal gioco sporco di George Walker Bush, che – attraverso una serie di mezzi abbastanza scorretti – lo dipinse come un immorale davanti agli elettori religiosi, costringendolo ben presto alla resa. Ci riprovò nel 2008, con fortuna appena maggiore. Quella volta le primarie riuscì a vincerle, sfruttando una strategia comunicativa efficace, volta a presentarlo come un eroe di guerra redivivo, pronto alla riscossa (la cosiddetta comeback strategy). Ma fu comunque un calvario. Soprattutto a causa del sistema elettorale uninominale adottato da alcuni Stati, McCain ottenne la nomination avendo dalla sua appena il 40% dell’elettorato repubblicano. Conquistò insomma un partito spaccato, con una destra evangelica che lo considerava un eretico e con un neonato Tea Party che lo vedeva come un traditore. Cercò in extremis di blandire le frange radicali, scegliendosi come vice la governatrice dell’Alaska, Sarah Palin. Ma fu un disastro.
Nonostante una popolarità abbastanza ridotta tra i conservatori duri e puri, McCain ha comunque mantenuto negli anni una sorta di aura sacra nel GOP, visti anche i suoi trascorsi nel Vietnam. Per questo, quando l’estate scorsa Donald Trump lo attaccò pubblicamente, negandogli lo status di eroe di guerra, diversi analisti (a partire dal New York Times) ritennero che l’elettorato non avrebbe perdonato una simile “bestemmia” verso un mostro sacro del proprio pantheon. Mai previsione risultò più errata. Fu proprio da quella dichiarazione che, anzi, il miliardario avviò de facto la travolgente ascesa che lo avrebbe poi portato alla vittoria della nomination: una vittoria del tutto inopinata fino a pochi mesi fa. Nonostante nel 2008 il magnate avesse dato il proprio endorsement all’anziano senatore durante la sfida per la Casa Bianca, la simpatia tra i due non è mai sbocciata. Nel corso di quest’autunno, hanno costantemente battibeccato (soprattutto sulla questione dei veterani e sulle problematiche di politica estera), fin quando poi – messo alle strette dai fatti – il senatore non ha aperto alla possibilità di appoggiare il miliardario in caso fosse riuscito a conquistare la nomination. Recentemente, i due sono rientrati in polemica dopo lo scontro avuto da Trump nei confronti del padre di un soldato americano musulmano, morto in Iraq. Infine, entrambi sembrano essere giunti a una tregua armata, visto che il magnate ha accettato di appoggiare ufficialmente il vecchio John nella sua corsa per la rielezione al Senato.
Un endorsement non si sa quanto convinto, visto che la diretta avversaria del senatore appare sotto certi aspetti più trumpista di Trump: si tratta di Kelli Ward, medico e attuale deputato presso il senato dell’Arizona. Nota per le sue posizioni fortemente conservatrici, è considerata molto vicina al Tea Party e ha più volte espresso apprezzamenti per le dichiarazioni del miliardario newyorchese. Non a caso, la sua strategia elettorale ha fondamentalmente rispolverato il tradizionale armamentario che la destra ha negli anni utilizzato contro il vecchio senatore: dipingerlo come un democratico travestito, inciucione ed espressione del più odioso establishment. Addirittura sembra che lo staff di Ward abbia mandato in onda degli spot ipercritici verso McCain (in cui, tra le altre cose, si sottolineano le sue vicinanze politiche con Hillary Clinton). Si tratta – per inciso – degli stessi spot utilizzati da Mitt Romney contro di lui durante le primarie repubblicane del 2008: un po’ paradossale, visto il mezzo asse anti-Trump che in questi mesi è venuto via via costituendosi tra lo stesso Romney e McCain. Ma non basta: recentemente la battagliera Ward ha anche affermato che votare McCain sarebbe del tutto controproducente, perché, data l’età avanzata, probabilmente il suo avversario non arriverebbe a fine mandato. Una serie di attacchi serrati, talvolta scorretti, davanti a cui l’anziano senatore ha più volte mostrato segni di stanchezza nel reagire, presentandosi quasi incapace di mantenere credibilità agli occhi di frange elettorali sempre più radicalizzate e dure.
Il punto fondamentale nella questione allora non è tanto la presenza di un candidato radicale, quanto semmai la difficoltà mostrata da McCain nel conseguimento della rielezione. Per quanto i sondaggi appaiano per lui al momento confortanti, i problemi riscontrati in questa tornata manifestano evidentemente una rivoluzione all’interno del partito repubblicano. McCain non è difatti solo un politico malvisto per diverse sue posizioni. Ma è anche – e soprattutto – un simbolo. E’ un simbolo della Storia americana, così come – al contempo – di una politica vecchia e da molti considerata indebitamente arroccata sulle proprie rendite di posizione.
La sofferenza di McCain esprime la sofferenza non solo di un partito ma anche di un’idea di America che sta ormai arrivando al collasso: una vecchia America che – per quanto gloriosa – sembra abbia fatto il suo tempo, davanti a un’opinione pubblica spazientita, arrabbiata e impaurita, che ha ormai definitivamente gettato – a torto o a ragione – alle ortiche gli altisonanti nomi dei Clinton e dei Bush. Un elettorato che non ne vuole più sapere di esperienza e moderatismo ma che chiede un cambiamento radicale e travolgente. Anche se a proporlo è un demagogo con tendenze cialtronesche, che può permettersi di sputare sulla Storia statunitense e continuare ad accumulare consenso: perché sa che l’elettore è sempre più insofferente ai lacci del politically correct e a una retorica roboante dal sapore menzognero. In tutto ciò, la figura di John McCain riassume in sé questa profonda crisi: un capro espiatorio, in bilico tra innocenza e colpevolezza. Una figura che racchiude in sé le contraddizioni laceranti della politica statunitense degli ultimi quarant’anni, perennemente contesa tra gloria e maledizione, luce e opacità, eroismo e sotterfugio.
In questa rielezione McCain si gioca tutto. A livello personale, però. Perché, se anche dovesse farcela, non potrà eliminare il fardello che rappresenta: il fardello di un tramonto. Un tramonto storico. L’amaro crepuscolo di un mondo agonizzante. Un mondo che non tornerà più.
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