America
L’Iran dell’era Trump, a metà strada tra Mosca e Pyongyang
Donald Trump ha rifiutato ieri di certificare l’accordo sul nucleare con l’Iran, minacciando di stracciarlo del tutto, qualora non si vieti a Teheran di costruire armi nucleari o missili intercontinentali. In base al trattato, il presidente statunitense deve infatti dare la propria certificazione all’intesa trimestralmente, per verificare che i termini dell’accordo siano rigorosamente rispettati. Dopo aver dato il benestare per due volte negli ultimi mesi, Trump ha deciso per un passo indietro. Una scelta non propriamente inattesa, visto che – alcune settimane fa – l’ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley, aveva usato parole molto dure verso la politica nucleare iraniana, lasciando intendere che il magnate fosse intenzionato a sospendere l’intesa con Teheran.
Siglato alla fine del 2015 da Barack Obama, il trattato prevedeva di stemperare le tensioni che dividevano da decenni le due nazioni. Se ai tempi dello Scià Teheran rappresentava un alleato importantissimo di Washington in Medio Oriente, l’ascesa al potere dell’ayatollah Khomeini nel 1979 cambiò drasticamente le cose. L’allora presidente americano, Jimmy Carter, credette inizialmente di poter portare i rivoluzionari iraniani dalla propria parte, visto il loro radicale anticomunismo. Un calcolo che si sarebbe rivelato assolutamente fallimentare: Khomeini bollò lo Zio Sam di essere il “Grande Satana”, interruppe le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti e prese in ostaggio il personale dell’ambasciata americana a Teheran. Uno smacco pesantissimo per Carter, il quale – anche per questo – si vide sconfitto alle presidenziali del 1980 dal candidato repubblicano, Ronald Reagan. E proprio con Reagan i rapporti tra le due potenze continuarono a peggiorare. Per quanto, nonostante la retorica ostile usata da entrambe le parti, i due nemici pare commerciassero allegramente armi sottobanco. In barba alle decisioni del Congresso (che aveva comminato un embargo a Teheran), pezzi importanti dell’amministrazione Reagan vendevano materiale bellico agli iraniani, usando il ricavato per finanziare i Contras in Nicaragua. La cosa fu svelata nel 1985: scoppiò così lo scandalo Irangate, il quale arrivò a lambire lo stesso presidente. Tanto che qualcuno arrivò addirittura a parlare di impeachment. Da allora, i rapporti non sono comunque migliorati. In particolare negli anni 2000, George Walker Bush intrattenne relazioni molto tese con l’allora presidente iraniano Maḥmūd Aḥmadinežād, per le sue posizioni bellicose tanto verso gli Stati Uniti quanto verso Israele. E – soprattutto in quel periodo – Teheran iniziò ad essere temuta sempre più sul fronte della politica nucleare.
In questo clima durissimo, fatto di sanzioni e parole grosse, l’amministrazione Obama cercò di cambiare le cose. Complice anche l’ascesa al potere in Iran del premier Rohani (un profilo di tendenze moderate), Obama cercò di intraprendere la via del disgelo. Il tentativo non nasceva da esigenze umanitarie ma da un calcolo geopolitico: da sempre favorevole a un graduale disimpegno americano nella regione mediorientale, Obama era convinto della necessità di rinfocolare le rivalità storiche presenti in quel territorio. Un’apertura all’Iran avrebbe così rappresentato uno schiaffo politico all’Arabia Saudita e avrebbe inoltre alimentato l’astio tra questi due storici nemici. In questo contesto, vennero maturando le trattative per raggiungere un’intesa sul nucleare con Teheran: trattative a cui, oltre a Stati Uniti e Iran, presero parte Regno Unito, Russia, Francia, Cina e Germania. L’Iran Deal prevedeva dunque che i paesi occidentali abolissero man mano le sanzioni economiche imposte all’Iran negli ultimi anni, mentre quest’ultimo accettava di limitare il suo programma nucleare, consentendo inoltre controlli da parte delle Nazioni Unite alle proprie installazioni nucleari. L’intesa fu salutata come una vittoria netta dell’amministrazione Obama. Eppure, negli Stati Uniti, le polemiche si accesero subito.
Il Partito Repubblicano, che deteneva già allora la maggioranza al Congresso, si disse assolutamente contrario a ratificare un simile accordo: in particolare, il senatore Tom Cotton, ha ripetutamente affermato che non sia possibile fidarsi dell’Iran e che Teheran userebbe queste concessioni per armarsi pericolosamente ai danni degli Stati Uniti. Non a caso, nel corso della campagna elettorale, quasi tutti i candidati repubblicani (da Jeb Bush a Marco Rubio, passando per Ted Cruz) sostenevano la necessità di smantellare l’intesa e tornare alle sanzioni. La stessa Hillary Clinton, a sinistra, aveva sempre mostrato scetticismo verso quel trattato, nonostante alcune dichiarazioni di facciata. Paradossalmente, era proprio Trump ad aver assunto la posizione più moderata in materia, invocando una rinegoziazione del trattato, anziché una sua abolizione. Una linea morbida, dunque, probabilmente dettata dal fatto che il magnate avesse intenzione di attuare un disgelo verso la Russia (di cui l’Iran è uno storico alleato mediorientale). Eppure, dopo la vittoria novembrina, molte cose sono cambiate. Il ricatto politico subìto dai nemici repubblicani a causa dello scandalo Russiagate ha costretto il neo presidente a rivedere molte delle sue posizioni in politica estera. Dalla Russia alla Siria, venendo finalmente allo stesso Iran. Trump si è così trasformato via via in un falco, scendendo a patti con le frange maggiormente anti-iraniane del Partito Repubblicano (dal direttore della CIA, Mike Pompeo, alla stessa Nikki Haley, da sempre particolarmente vicina alle galassie neoconservatrici). In tal senso, rifiutando la certificazione, Trump passa la palla al Congresso, consentendogli di decidere se reimporre le sanzioni (stracciando l’accordo). Una possibilità non solo chiesta da mesi a gran voce da molti repubblicani ma anche da qualche democratico.
In tutto questo, non dobbiamo dimenticarci poi di un ulteriore problema. Quello della Corea del Nord. Nei primi anni 2000, George Walker Bush era solito parlare del cosiddetto “Asse del Male”: un insieme di Paesi ostili agli Stati Uniti e mossi da intenti terroristici che, secondo lui, andava dall’Iraq all’Iran alla stessa Corea del Nord. Già alla fine del 2015, il Wall Street Journal mostrò che vi fossero scambi tra Teheran e Pyongyang in termini di tecnologia nucleare. Scambi che sono stati recentemente confermati. Non è quindi assolutamente escludibile che la scelta di Trump sull’Iran sia finalizzata a cercare di colpire indirettamente il programma nucleare nordcoreano. Ecco perché il passo indietro del presidente sembra avere alla sua base una serie di cause complesse: dalla politica interna alla geopolitica. E, mentre i leader europei si sono detti in sostanziale disaccordo con la decisione statunitense, l’Iran ha risposto picche, raffreddando i rapporti. E in tutto questo, la strada del disgelo americano verso il Cremlino si fa sempre più in salita.
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