America
L’immigrazione secondo Trump
Quando nel giugno 2015 – tra l’incredulità e l’aria di sufficienza degli analisti – Donald Trump si candidò ufficialmente alle primarie repubblicane, sin da subito il suo programma elettorale venne a fissarsi su un unico punto: la lotta all’immigrazione illegale. Si trattava invero di un programma non particolarmente dettagliato, che si limitava alla frenetica ripetizione di due cose: il rimpatrio di undici milioni di clandestini e la costruzione di un muro difensivo al confine con il Messico. Il tutto infarcito da affermazioni poco eleganti contro i messicani, tacciati dal miliardario di essere dei ladri e degli stupratori: un pericolo inquietante, insomma, per la società e l’economia americane.
Per mesi Trump ha proseguito imperterrito su questa linea, mandando in confusione buona parte di un partito repubblicano, il quale – dopo le sconfitte registrate alle presidenziali del 2008 e del 2012 – temeva che quest’atteggiamento contribuisse ad alienargli il sempre più fondamentale voto degli ispanici. Un voto da conquistare quindi assolutamente. Anche per questo, durante le primarie repubblicane del 2016, sono emersi nomi di candidati legati a quella minoranza: da Marco Rubio a Ted Cruz, per arrivare allo stesso Jeb Bush (sposato con la messicana Columba Garnica Gallo).
Eppure, nonostante tutto, il fulvo magnate ha proseguito nella sua ascesa, trovando proprio nella questione dell’immigrazione la spinta propulsiva del proprio successo. E pazienza se per mesi alle sue affermazioni non ha fatto da contraltare alcuna proposta concreta sulla loro effettiva realizzabilità! Le spiegazioni razionali sono roba da establishment e Donald – of course – è amico del popolo (o almeno così dice).
Ma a un certo punto le cose sono iniziate a cambiare. Complice anche lo straordinario successo mietuto nel corso delle primarie, Trump ha dovuto iniziare a fare i conti con la realtà e soprattutto con la possibilità di arrivare a novembre nello Studio Ovale. Anche per questo, già in primavera, ha cominciato una sorta di riposizionamento proprio sul suo principale cavallo di battaglia. Nel corso di un dibattito televisivo, ad esempio, annunciò di aver cambiato idea sulla restrizione dei visti concessi per motivi di lavoro, aggiungendo che gli Stati Uniti hanno bisogno di gente preparata e in gamba, da attrarre e includere. Da allora è stato un continuo altalenare tra il vecchio radicalismo e un discorso più addolcito, con l’ovvio obiettivo di non alienarsi le simpatie di quel voto ispanico che costò la vittoria a Mitt Romney nel 2012. In quest’ottica vanno d’altronde lette le ultime dichiarazioni del magnate volte a sostenere la volontà di “ammorbidire” alcune sue posizioni così come il suo recentissimo viaggio in Messico, quasi a voler ricucire uno strappo da molti considerato insanabile.
Ma l’altalena prosegue, come dimostra il discorso da lui tenuto mercoledì a Phoenix (in Arizona), dove ha per la prima volta esposto un piano dettagliato sulla questione dell’immigrazione. Nonostante qualcuno si aspettasse una marcia indietro, Trump, almeno ufficialmente, ha mantenuto la linea dura, sebbene con alcuni fondamentali aggiustamenti. Se un tempo asseriva di voler rimpatriare in blocco undici milioni di clandestini, oggi sostiene che vi sia urgenza “soltanto” per circa due milioni di persone (quelle legate alla criminalità). Tuttavia, come fa notare la testata The Hill, non si capisce dove voglia andare concretamente a parare per i restanti nove milioni che al momento resterebbero sospesi in una sorta di limbo. Altro elemento controverso nel discorso di Phoenix è stata la proposta di voler mettere un freno all’immigrazione legale, introducendo tra le altre cose un test di “certificazione ideologica” volto a testimoniare la consonanza valoriale del potenziale immigrato con gli Stati Uniti: si tratta anche qui di una giravolta notevole, visto che il magnate aveva sempre dichiarato di voler combattere esclusivamente l’immigrazione clandestina. Il punto è che anche qui Trump non ha specificato più di tanto come il tutto possa essere realizzato, senza troppe parole poi sulle coperture finanziarie finalizzate a sostenere le sue proposte. Il terzo elemento è tornato infine ad essere il famoso muro. Il magnate ha ribadito con forza di voler costruire una barriera “bellissima e impenetrabile”: una barriera che sarà lo stesso Messico a dover pagare.
A questo punto, come al solito, le incognite restano. E neanche poche. Nonostante alcuni piccoli riposizionamenti, il piano proposto da Trump a Phoenix si presenta come un manifesto tipicamente in stile law and order, a partire dal fatto che il miliardario abbia categoricamente escluso la possibilità di un’amnistia per i clandestini. E’ dunque qui che gli analisti si arrovellano. Una simile posizione potrà aiutare Trump nella conquista della Casa Bianca o finirà per azzopparlo definitivamente? A prima vista la risposta sembrerebbe scontata (e forse magari lo è): se si ragiona con i parametri delle presidenziali americane classiche, è abbastanza ovvio che Trump non possa avere molte speranze: troppo radicale, troppo volgare, troppo estraneo alle minoranze etniche. Sotto quest’aspetto, va da sé come la sua rivale, Hillary Clinton, non potrebbe che avere la strada spianata, vista la sua propensione verso le minoranze e l’ottica inclusiva che cerca di portare avanti.
Ciononostante, occhio ai facili automatismi. Perché è sbagliato considerare l’elettorato ispanico come un monolite compatto: al suo interno esistono infatti varie articolazioni che potrebbero appunto comportarsi elettoralmente in modo differente. In particolare, bisogna tenere presente due blocchi. Uno, costituito da elettori ispanici con parenti clandestini: un blocco che evidentemente non voterà Trump a novembre. Dall’altra però non bisogna dimenticare quegli immigrati ispanici regolari che – per varie ragioni – non vedono di buon occhio i propri compatrioti clandestini: una quota che, a ben vedere, non si può escludere possa preferire l’approccio duro di Trump a quello morbido di Hillary Clinton. Anche perché, se è vero che buona parte dell’elettorato ispanico al momento non sembri amare granché il miliardario, è altrettanto indubbio che alcune frange di quel mondo non paiano pensarla allo stesso modo: si veda per esempio il caso del caucus del Nevada, dove Trump è riuscito a conquistare un risultato più che discreto nel voto latinoamericano.
Infine, più in generale, non tralasciamo un altro elemento. A Phoenix, il candidato repubblicano ha nuovamente connesso le proprie istanze sull’immigrazione al suo discorso duramente protezionista in politica economica. Un discorso che ha portato Trump a criticare aspramente i trattati internazionali di libero scambio, da lui considerati tra le principali cause della crisi dei posti di lavoro statunitensi. Si tratta di una prospettiva oggi molto popolare in America (a destra così come a sinistra), in seno a un contesto sociale in cui l’immigrazione (di qualunque tipo) viene assai spesso considerata come un fattore negativo da respingere o limitare: soprattutto negli Stati centrali e in quelli della Rust Belt: territori elettoralmente decisivi. I tempi di Ronald Reagan e Bill Clinton, in cui l’immigrazione era – anche nell’immaginario collettivo – il motore propulsivo dell’economia americana sembrano essere giunti al tramonto. Trump lo sa. E punta su questo per arrivare a Washington.
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