America

Le convergenze parallele di Trump

29 Gennaio 2017

Il tratto più berlusconiano di Donald Trump è sempre stato quello del decisionismo: l’imprenditore di successo che mette alla gogna il professionismo politico, considerato foriero di intrallazzi e incapacità assortite. Si tratta di una linea che il magnate ha portato avanti sin dalla sua discesa in campo nell’estate del 2015. E che gli ha de facto permesso di scalare un Partito Repubblicano in cui in fondo non si è mai riconosciuto: non sarà del resto un caso che il miliardario non citi praticamente mai il Grand Old Party, preferendo invece parlare del proprio “movimento” quasi come di un corpo estraneo, sempre nel nome di un vigoroso attacco ai politici di professione. In tal senso, lo stesso discorso di insediamento ha fondamentalmente ribadito questa prospettiva: anziché ricorrere a toni conciliatori, il neopresidente ha letteralmente bastonato l’intera classe politica statunitense, accusandola di inconcludente incapacità.

Insomma, se all’indomani della vittoria novembrina il magnate era parso vagamente più accomodante, nel giro di poche settimane sembra tornato alla grinta un po’ becera della campagna elettorale. E del resto, non è difficile capire il perché di questo insolito comportamento: Trump vuole appunto restare fedele alla sua immagine di uomo decisionista costruita negli scorsi mesi, rifiutandosi fermamente di accettare compromessi su quanto promesso in campagna elettorale. Un modo anche, se vogliamo, per rispondere a quegli analisti che avevano ripetutamente definito gran parte delle sue proposte come accozzaglia demagogica e irrealizzabile. E in questa chiave vanno d’altronde letti i primi provvedimenti messi in atto dal neopresidente: dall’indebolimento dell’Obamacare, al divieto di entrata negli Stati Uniti per i musulmani, passando per l’apertura alla Russia. Un treno che non si ferma davanti a niente, insomma, e che mantiene a tempo di record le proprie promesse elettorali. Un presidente risoluto e finalmente libero dalle pastoie della politica. Ma le cose stanno veramente così? Perché al di là delle apparenze, la situazione potrebbe essere un tantino più complicata. E, nonostante l’indubbia efficienza del neopresidente, non è detto che i lacci siano realmente scomparsi da un momento all’altro.

Partiamo dall’Obamacare. Da anni il tycoon critica aspramente la riforma sanitaria firmata da Barack Obama nel 2010. E nei giorni scorsi, il neopresidente ha siglato un ordine esecutivo con l’obiettivo di indebolirne un punto centrale: l’obbligo imposto ai cittadini di munirsi di un’assicurazione sanitaria. Il fatto è stato prontamente interpretato come il primo passo verso lo smantellamento della legge. Il punto è che la strada, su questo fronte, non sembra essere propriamente in discesa. Innanzitutto, Trump non ha mai eccessivamente condiviso il radicalismo liberista promosso dai repubblicani in questi anni in materia sanitaria: nei mesi scorsi, ha più volte sostenuto di essere contrario a liberalizzazioni selvagge. Il problema è che Trump non ha ancora un piano alternativo, mentre il segretario alla Salute da lui nominato, Tom Price, è da tempo un accanito fautore di un sistema che abbatta duramente l’Obamacare. Dall’altra parte, i repubblicani al Congresso temono di essere scavalcati dal potere presidenziale. E – secondo Politico – potrebbe profilarsi un braccio di ferro tra esecutivo e legislativo. Anche perché – sia alla Camera che al Senato – sono i deputati che vogliono avere l’ultima parola, sebbene anche loro non abbiano ancora presentato alcun piano sanitario alternativo.

Poi abbiamo la stretta sui musulmani. Anche questo è un cavallo di battaglia del neopresidente, che – a ridosso della strage terroristica di San Bernardino nel 2015 – propose di vietare temporaneamente l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini musulmani. Tuttavia anche qui qualche intralcio si staglia all’orizzonte. Gli ordini esecutivi da soli infatti servono a poco, se il Congresso poi non ratifica i provvedimenti. E non è affatto detto che il Congresso segua pedissequamente il neopresidente su questo sentiero. Non dimentichiamo infatti che non poche aree del Partito Repubblicano abbiano costantemente criticato in passato l’atteggiamento anti-musulmano propugnato da Trump: tra i maggiori critici, nei mesi scorsi, figurano lo Speaker della Camera, Paul Ryan, e – addirittura –  l’attuale vicepresidente, Mike Pence. Inoltre, svariati esponenti del movimento neoconservatore hanno spesso sostenuto che questo tipo di strategia possa alienare all’America la simpatia dei paesi musulmani alleati nella lotta al terrorismo. E d’altronde, la recente stretta anti-islamica è stata accolta da un gelido silenzio da parte dell’establishment repubblicano. Senza poi contare che il senatore John McCain sia intervenuto biasimando apertamente il provvedimento.

Situazione in parte simile vale per un’altra priorità di Trump: il disgelo con la Russia. Anche grazie alla mediazione dell’ex segretario di Stato, Henry Kissinger, il miliardario ha avuto una telefonata con Vladimir Putin con l’obiettivo di mettere le basi per una risoluzione della crisi siriana. Si tratta di una svolta significativa che – nelle intenzioni di Trump – dovrebbe preludere a un’apertura ben più profonda. Il problema è che – anche qui – parte non indifferente dei senatori repubblicani non paia particolarmente favorevole alla cosa: da John McCain a Lindsay Graham, passando per Marco Rubio e Ben Sasse. Nemici accaniti del miliardario che non vedono tra l’altro di buon occhio una distensione con il Cremlino. Un ulteriore ostacolo sulla strada del magnate. Anche perché – ricordiamolo – la maggioranza repubblicana al Senato risulta alquanto risicata.

In virtù di tutto questo, è abbastanza chiaro che – nonostante l’immagine decisionista – Trump non possa permettersi eccessive libertà nella sua azione di governo. Non solo perché – come visto – parte consistente dei repubblicani al Congresso non lo ami granché. Ma anche perché all’interno della sua stessa amministrazione convivono anime profondamente contrastanti: si pensi solo che il segretario di Stato, Rex Tillerson sia amico di Putin, mentre il segretario alla Difesa, James Mattis si dica di contro profondamente avverso a Mosca. In tutto questo allora, se Trump vorrà governare efficacemente dovrà essere molto più moroteo di quanto possa a prima vista sembrare. Dovrà, in altre parole, mediare costantemente tra gruppi e interessi discordanti, conscio del fatto che avversari e falsi amici possano improvvisamente azzopparlo. Perché Trump potrà anche continuare a mostrare i muscoli dell’antipolitica. Ma un grande rischio potrebbe attenderlo da un momento all’altro: ritrovarsi impantanato in una palude melmosa. E i suoi avversari (soprattutto repubblicani) non aspettano altro.

 

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