America
Le botte da orbi tra Fox e Trump (due destri) in Italia sarebbero impossibili
Noi siamo qui a bocca semiaperta, paralizzati dalla sorpresa, beatamente scandalizzati, nel vedere che una giornalista di Fox ha fatto a botte con un conservatore, rinfacciandogli (giornalisticamente) il suo sessismo e quello, incazzato come una bestia, si è messo a insultarla e poi il giorno dopo la questione si è fatta America e così – racconta Massimo Gaggi sul Corriere – Erick Ericson, “celebre «blogger» conservatore e animatore del forum «Red State», che aveva organizzato ad Atlanta un raduno di leader americani”, all’insulto definitivo di Donald Trump («La Kelly aveva il sangue agli occhi e dappertutto»), lo ha mandato definitivamente a quel paese, invitando al suo posto proprio Megyn Kelly di Fox.
La destra (giornlistica) contro la destra (politica) forse in nome dei sacri principi libertà di stampa? La questione è leggermente più complessa e comprende dignità personale e supremo interesse aziendale. C’è il caso, c’è assolutamente il caso, che negli Stati Uniti queste due tensioni alle volte – magari anche spesso, ma non è il caso di allargarsi troppo – possano trovare una sintesi virtuosa e produrre i benefici effetti che sappiamo. Andrà subito detto che tutto ciò da noi è matematicamente impossibile. Fox ha fatto blocco contro Donald Trump per motivi lineari ed evidenti, che solo a poveri assetati di buon giornalismo come siamo noi possono apparire stravaganti. Si sono unite tre necessità stringenti, che compongono quella sottile linea rossa sotto la quale non è consigliabile andare: la difesa del mestiere, il massimo della professionalità giornalistico/televisiva e la necessità intelligente dello spettacolo (che si traduce in benefici economici). “Il dibattito di Cleveland – scrive ancora Massimo Gaggi – definito da molti il migliore di sempre per la durezza e l’immediatezza delle domande rivolte a tutti i candidati, non solo a Trump, è stato sicuramente il più seguito della storia delle tv «cable»: 24 milioni di spettatori, record assoluto per una trasmissione non sportiva su queste reti. Nella campagna di quattro anni fa i dibattiti tra candidati non superarono mai i 7 milioni di spettatori”.
Da noi in Italia, le posizioni in campo sono cristallizzate da buoni vent’anni (per il mezzo secolo democristiano magari ci ritroviamo al bar e ne parliamo) e a memoria personale non ricordiamo un caso così eclatante come quello che ha messo di fronte Fox e Trump, comprendendo cioè valore giornalistico ed elemento sorpresa, qualcosa di così eletrizzante da far sussultare di piacere l’ascoltatore sprofondato davanti alla televisione. Prima ancora di infilarci in quel tunnel noiosissimo e ipocrita costellato di espressioni tipo #schienadritta e roba trita e ritrita del genere, il primo motivo per cui non assisteremo mai in Italia a un confronto giornalistico alto tra sensibilità affini, quelle del giornalista e quelle del politico, è prima di tutto squisitamente economico. Perché nessuna televisione o, peggio ancora, nessun giornale preferirà guadagnare dei soldi, con la professionalità dei mezzi a sua disposizione, rispetto alla possibilità che il politico si dispiaccia terribilmente per l’atteggiamento temerario di quel cronista (che poi, tradotto in soldoni, sarebbe semplicemente fare le domande del caso). È quindi il disvalore economico il primo crimine giornalistico della nostra editoria, che certifica in premessa generale d’esser prona alla parte politica di riferimento e dunque indisponibile a un confronto paritario.
Al fattore economico, segue naturalmente tutto il resto. Vi sembrerà impossibile, ma la schiena dritta o la schiena curva dipendono dall’atteggiamento della proprietà prima ancora della dignità personale (che per definizione non ha prezzo). Ma insomma, con l’esperienza di una ventina e passa di anni di conferenze stampa, incontri, scazzi, confronti, qualcosa ormai ci sentiamo d’aver capito. E la prima cosa è che ogni giornale consegna idealmente al suo giornalista, nel momento in cui si apre un rapporto di lavoro, un certo tesoretto, chiuso dentro uno scrigno. Che dovrebbe comprendere credibilità, storia della testata, valori, area politica di riferimento. In questo delicato contesto, il cronista dovrebbe muoversi. Molto a passo felpato. Facciamo un esempio. È stravagante come in Italia le conferenze stampa, che in altri Paesi rappresentano un punto molto alto del confronto tra stampa e politica, non contino assolutamente una mazza. Vengono considerate momenti di purissima esposizione senza contraddittorio. L’esempio è di qualche giorno fa, alla presentazione della riforma della Pubblica amministrazione, dove Renzi sapeva benissimo che l’attenzione si sarebbe concentrata sul cda Rai (appena fatto). Una domanda alla Madia dell’eroico Giovannini de “La Stampa“, poi Renzi ha offerto il petto. È arrivata appena una timida domanda su come si sentisse dopo le tante critiche sulla composizione del consiglio Rai. Niente su Guelfi e sullo stile di portare un suo amico su una poltrona di viale Mazzini, niente sulla Borioni, già collaboratrice di Orfini, niente sul merito che non c’era, niente sul merito che c’era epperò riguardava i 5 Stelle con Freccero. Niente di niente. Si potrebbero fare centinaia di esempi ma è meglio fermarsi qui.
Viene da pensare a quei ragazzi di Libero e Giornale negli anni di Silvio, che abbiamo visto invecchiare in assenza di domande scomode, ci si imbarazza oggi per i ragazzacci dell’Unità, ai quali tocca celebrare il buon Matteo che vince sempre il pesce rosso al Luna Park, e in questa condizione di amarezza basta poco per inumidirci il ciglio: un impeccabile pezzetto di Mario Lavia, che oggi lavora lì all’Unità, ma che l’altro giorno, per respirare un filo d’aria buona, sul suo blog ha scritto che il premier, sul consiglio Rai, aveva fatto veramente pena.
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