America

L’attesa dell’avvoltoio: strategia politica di Ted Cruz

15 Dicembre 2015

Tira una brutta aria nel Partito Repubblicano. Soprattutto dalle parti della sua ala destra, perennemente in subbuglio, nel tentativo di trovare finalmente un leader dietro cui compattarsi per cercare (ancora una volta) di scalare l’Elefantino con un successo maggiore rispetto al 2008 e al 2012. Un’ala destra indubbiamente incostante, che nel corso dei mesi ha più volte cambiato il cavallo su cui puntare. Ma una destra che – nonostante l’incoerenza e la volatilità di opinione – ha alla fine sempre trovato in Donald Trump la propria figura di riferimento, determinando il rapido eclissarsi di meteore politiche come Carly Fiorina e Ben Carson (che qualche incauto analista aveva già dato come prossimi presidenti degli Stati Uniti).

Eppure anche Trump qualche pensiero inizia ad averlo. E al di là dei segni di nervosismo, un campanello d’allarme oggettivo emerge chiaramente dai sondaggi: in particolare da quelli condotti in Iowa (Stato notoriamente portato a favorire i candidati più radicali e quindi costantemente considerato riserva di caccia del fulvo magnate). Ebbene, proprio in Iowa Trump sarebbe stato recentemente scalzato dalla sua posizione di front runner dal senatore texano, Ted Cruz: l’ultraconservatore, vicinissimo alla religious right, che ha iniziato da settimane una lenta (ma forse inesorabile) ascesa nel gradimento elettorale (soprattutto sul fronte della destra radicale). E difatti attualmente in Iowa condurrebbe col 26% dei consensi, davanti al 25,4% del creso Donald. Il quale mostra evidenti segni di agitazione.

Anche perché stavolta la situazione è diversa dalle altre profilatesi in passato. Differentemente da Carson e Carly Fiorina, è difficile che Cruz possa rivelarsi un’effimera meteora: non ha avuto un exploit improvviso, sta crescendo gradualmente ma con decisione e sta riuscendo a capitalizzare i consensi conservatori attraverso la strategia dell’avvoltoio: spolpare i cadaveri dei contender radicali via via morti o in procinto di spirare (da Scott Walker a Bobby Jindal, arrivando allo stesso Carson). Una strategia che lo sta aiutando enormemente: un strategia con cui mira a presentarsi man mano come l’unico rappresentante credibile della destra e che punta evidentemente ad artigliare la sua più fiera e potente vittima: Donald Trump. Una vittima che tuttavia è ancora troppo energica e in buona salute per essere attaccata direttamente: ed è per questo che l’avvoltoio aspetta. Paziente, gelido, calcolatore.

Dopo mesi di moine e complimenti, Trump improvvisamente inizia a bersagliarlo (dandogli addirittura del folle e dell’ipocrita) e lui, Cruz, incassa col sorriso sulle labbra, addirittura ringraziandolo e definendo il magnate un “amico”. Perché l’avvoltoio è scaltro: sa bene che farsi trascinare nella rissa da Trump equivale a un suicidio politico. E sa bene che, qualora lo attaccasse direttamente, non solo rischierebbe di farsi travolgere dalla sua verve istrionica ma soprattutto di alienarsi le simpatie dei suoi sostenitori: quei sostenitori cui Cruz guarda con avidissimo interesse. Perché lui gli elettori non li conquista: li sottrae.

Trump, dal canto suo, si trova spiazzato. Sinora si è difatti trovato davanti ad avversari che lo hanno criticato (rimanendo per questo fulminati dalla sua scorrettissima retorica) o che hanno preferito ignorarlo (manifestando così deleteria fiacchezza). Il fatto che Cruz gli risponda con il fiorellino in mano (neanche fosse un hippy) gli crea quindi più di un problema. Innanzitutto perché fino a poche settimane fa i due andavano costantemente a braccetto come dei fidanzatini: cosa che espone il miliardario a un’ovvia accusa di incoerenza.

Ma, più in profondità, c’è da dire che la strategia comunicativa di Trump è stata sempre impostata su un principio: mai attaccare per primo: attendere che fosse il nemico a fare la prima mossa per poi sommergerlo di insulti e improperi fino ad abbatterlo (qualcuno si ricorda di Rick Perry?). Il punto è che questa voltaperò è stato Trump ad attaccare briga. E l’atteggiamento irenico di Cruz non fa che metterlo ancor più in imbarazzo: in una posizione scomoda che rischia di dipingerlo non soltanto come un arrogante ma anche come un isterico in preda al panico.

E intanto l’avvoltoio aspetta. Convinto che a lungo andare, Trump possa deteriorarsi e cedergli larga parte dei suoi attuali supporter. Certamente si tratta di una strategia che finora si è mostrata efficace: ma che potrebbe anche rivelarsi un’arma a doppio taglio. La narrazione incarnata da Cruz è difatti sempre stata quella del fighter: il combattente duro e puro, che lotta contro tutto e tutti in difesa (lui dice) della verità. Un atteggiamento aggressivo che mal si concilia con la soavità enfatizzata in questi giorni verso il fulvo magnate: e che potrebbe esporlo alle accuse di falsità o debolezza.

Lo scontro per la conquista della leadership sull’elettorato ultraconservatore sta per avere inizio. Vedremo se avrà la meglio la retorica sanguigna di Trump o l’artificiosa ampollosità di Cruz. Se uno dei due riuscirà veramente a compattare le frange radicali dietro il proprio vessillo o se al contrario la destra sarà destinata a infrangersi in una serie di rivoli, condannandosi così all’irrilevanza politica. Trump è sicuramente molto vigoroso nel voto più smaccatamente antisistema mentre Cruz può contare di più sull’elettorato evangelico, verso cui il miliardario pare non sia al momento riuscito veramente a sfondare.

E mentre l’inizio delle primarie si avvicina, l’avvoltoio texano si leva in volo sulle piane dell’Iowa. Sperando prima o poi di artigliare una bionda e succulenta carcassa.

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