America
L’America di Trump parla a noi e di noi
Ci sono molte cose che l’America di Donald Trump ha rivelato. Tra queste, una mi sembra rilevante e che ci riguarda: c’è sempre un momento nella storia di ogni società in cui una parte consistente dell’opinione pubblica decide o avverte che la politica non risponde più alle proprie domande. In altre parole non fornisce le risposte di cui va in cerca.
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Non è detto che questo significhi la crisi della democrazia , ma certo indica uno stato di stress.
In altre parole: la forma democratica di governo gode ottima salute; allo stesso tempo cresce la sfiducia nei confronti delle istituzioni democratiche.
Ne discende che non sarebbero i valori democratici a essere l’oggetto dell’insoddisfazione dei cittadini, bensì le istituzioni e le persone che ne fanno parte.
L’elezione di Donald Trump è l’effetto del combinato di questo dato? Forse. E’ un dato che parla ancher a noi, al di qua dell’Atlantico.
E’ il primo dato che si ricava dal viaggio nell’ “America profonda” che propone Roberto Festa nel suo L’America del nostro scontento (Elèuthera) .
Un viaggio compiuto nei mesi immediatamente precedenti la lunga estate che ha portato Donald Trump prima a vincere le primarie repubblicane e poi ad affermarsi come 45° Presidente degli Stati Uniti.
In quel viaggio Roberto Festa ci fa toccare molti strati dell’America Profonda: quella del mondo diffuso dell’elettorato di Trump in cui contano molto il vocabolario diretto, non meno della sua psicologia.
Un mondo che a un occhio attento appare contemporaneamente”nostalgico” ma per questo non meno “attuale”, carico di domande, di richieste, ma soprattutto non estraneo a una condizione diffusa, che lambisce e tocca nel profondo anche le nostre democrazie europee, che vivono un identico processo in cui la divisione in classi è tra vincenti e “perdenti della modernizzazione”. Laddove i “perdenti” sono coloro che non riescono ad adattarsi né a trarre vantaggio dai cambiamenti indotti dal processo di modernizzazione e dalla globalizzazione.
Dentro e dietro a questo dato (che ripeto parla anche profondamente a noi da questa parte dell’Atlantico) ci sono anche altre Americhe su cui Roberto Festa scava a fondo (anche per sottolineare che l’America non è mai un volto solo) e a cui anche noi faremmo bene a prestare attenzione.
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Così America è la storia di una difficile battaglia per i nuovi stili di vita, sesso e affetti della comunità omosessuale che Roberto Festa indaga e ricostruisce attraverso le molte storie spesso di solitudine, comunque sempre molto vere in un mondo che spesso è guardato “da fuori” e che qui invece è presentato dall’interno con tutte le sue incertezze, entusiasmi, delusioni, riflessioni.
Ma America, è anche, la storia di qualcosa che stenta a chiudersi e che Roberto Festa ci presenta attraverso una vicenda ormai vecchia di 50 anni che al cinema abbiamo visto attraverso la ricostruzione che nel 1988 ne ha fatto Alan Parker con il film Mississipi Burning .
Storia che in realtà non si è mai chiusa e che ancora è in attesa di chiarire molti elementi che rimangono misteriosi (noi in Italia dovremmo essere gli ultimi a stupircene, con “misteri” che durano da decenni e che alla fine si spengono più per stanchezza che non perché risolti) e che dunque generano disaffezione verso un’idea di giustizia.
E poi America è anche un insieme molto variegato di mondi che spesso configgono, talvolta si lambiscono senza incrociarsi, qualche volta si scontrano senza compromessi, anche all’interno stesso del lo schieramento generale all’interno del quale si collocano o a cui si richiamano.
Nell’estate 2016 è accaduto esattamente questo sia nel fronte democratico, sia in quello repubblicano: da una parte i sostenitori di Bernie Sanders, che gli chiedevano di farli sognare e che vedevano Hillary Clinton come loro avversaria, come tutto ciò che non volevano (più di Donald Trump) e, dall’altra, il mondo di quell’ America profonda “che ha scelto Trump” contro l’immagine che aveva di Barak Obama, ma anche, e forse prevalentemente, contro i poteri stabili del Partito repubblicano. Un insieme di “guerre intestine” , prima ancora che “guerre civili”, che tuttavia ha prodotto una lacerazione profonda alla fine che ancora stenta a essere recuperata a 6 mesi dall’insediamento di Trump, in cui forse, al di là dei molti segni che li vogliono opposti, Trump e Obama, hanno comunque un tratto comune, o molto prossimo.
Per entrambi è vera l’immagine di un paese profondamente spaccato: tra città e campagna; tra costa e interno; tra Nord e Sud, tra classe media e working class, tra maschi bianchi e maschi neri, tra uomini e donne.
Un paese che è sostanzialmente una nazione divisa. Cui lo slogan di rilancio testimonia di un’identica domanda: Tra “Yes We can” e “Make America Great Again” non c’è una grande differenza.
L’immaginario su cui si sostengono, il blocco di immagini, di emozioni, convinzioni, proiezioni cui rinviano, alla fine, risponde alla stessa condizione e si propongono come lo slogan di una società che vive drammaticamente il presente e si chiede quale sia per davvero il proprio futuro.
Una realtà come scrive Festa , caratterizzata da “parecchia rabbia; molta confusione; poca felicità”. Un cocktail che ha dato il suo risultato a suo modo coerente nel novembre 2008 e che non avendo risolto alla fine di quell’esperienza le molte inquietudini interne è andato altrove a cercare un possibile percorso di fuoriuscita dal proprio scontento
Che resta il vero motore – ma anche l’incubo, o almeno l’ossessione, di un’America in cerca da tempo di un proprio profilo nella globalizzazione e comunque oltre il Novecento, cui l’ha consegnata la vittoria nella “guerra fredda”, ma senza che si sia ridisegnata un’egemomia concreta, anzi costretta a condividere con altri quell’egemonia. Allo stesso tempo una condizione che i suoi poarner, e dunque noi, non abbiamo maturato in termini di responsabilità, convinti che comunque ci sarebbe stato sempre un potere a difenderci.
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Anche per questo l’America di Trump parla a e di noi.
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