America
La simpatia di Dick Cheney per Obama
Con l’approssimarsi delle presidenziali del 2016, il dibattito interno ai principali schieramenti politici statunitensi si fa ogni giorno più rovente, esacerbato e condito da non pochi colpi di scena. In casa democrat, la corsa di Hillary Clinton si affatica sempre di più. Da regina incontrastata dell’Asinello difatti, nel giro di pochi giorni, ha ricevuto due notizie ben poco rassicuranti: sondaggi che la inchiodano ad un grado di popolarità non propriamente elevato e la candidatura alle primarie di Martin O’Malley (governatore democratico del Maryland).
Ma, se Atene piange, Sparta non ride. Il GOP appare difatti ad oggi già caratterizzato da una pletora di candidati rissosi, molti dei quali pesantemente schiacciati su posizioni estremiste, particolarmente vicine alla religious right e al Tea Party (da Rick Perry a Ben Carson). Una confusione notevole, che rischia seriamente di trasformarsi in un bagno di sangue, spingendo il partito verso un’anima sempre più barricadiera e sostanzialmente perdente in termini di general election. Il tutto condito da un dibattito in cui l’integralismo religioso risulta sempre più centrale, contribuendo non poco ad allontanare il GOP dalle frange elettorali più moderate.
Un problema serio, di cui non pochi esponenti repubblicani hanno chiara coscienza, tanto che le varie anime lontane dall’ultraconservatorismo hanno deciso di dare battaglia in termini politici e ideologici, per sottrarre finalmente il partito dall’abbraccio soffocante con la religious right. Quella stessa religious right che molti vedono come principale artefice delle due ultime sconfitte elettorali, nel suo mancato appoggio a McCain (considerato di sinistra sui temi etici) nel 2008 e a Romney (mal visto perché mormone e troppo centrista) nel 2012.
In un simile contesto, all’interno del dibattito ideologico in seno al GOP, sta lentamente tornando a farsi sentire una voce “antica”: quella del neoconservatorismo. Sebbene l’anima neocon nel Partito Repubblicano non sia mai scomparsa, è pur vero che, dalla fine del secondo mandato presidenziale di George Walker Bush, essa sia rimasta a lungo in secondo piano. A seguito della guerra in Iraq, il neoconservatorismo era difatti caduto in un profondo discredito: violentemente attaccato non solo dalle frange più a sinistra del Partito Democratico, ma anche da buona parte dello stesso schieramento repubblicano. Si pensi all’ala libertarian ma anche alla compagine del conservatorismo moderato (John McCain in testa). In questi otto anni di amministrazione Obama dunque il neoconservatorismo non ha giocato un ruolo centrale. Non sono certo mancati suoi interventi e suoi momenti di visibilità: si pensi al discorso tenuto dall’ex Segretario di Stato, Condoleezza Rice, durante la Convention repubblicana di Tampa nel 2012. Un discorso energico, essenzialmente incentrato sulla politica estera e sulla necessità per gli Stati Uniti di tornare ad acquisire una leadership mondiale in nome della lotta al terrorismo e al caos geopolitico. Un discorso che – per inciso – fu tra i più applauditi in quell’occasione: chiaro segno che – per quanto indebolita – l’ideologia neocon non fosse poi così impopolare (almeno per buona parte della base GOP).
Ed oggi un’altra voce dell’universo neocon è tornata vigorosamente a farsi sentire: quella di Dick Cheney. Vicepresidente durante entrambi i mandati dell’amministrazione di George Walker Bush, Cheney ha da sempre rappresentato una figura di spicco all’interno del movimento neoconservatore. Tra i massimi fautori dell’intervento bellico in Iraq (insieme a Condoleezza Rice e Donald Rumsfeld), proprio questa posizione causò il crollo della sua popolarità (precedentemente altissima) nel corso degli ultimi anni di mandato, senza che ciò abbia comunque determinato – nonostante non pochi problemi di salute – un suo allontanamento dall’agone politico americano.
Dick fa ora un vigoroso ritorno al centro del dibattito ideologico statunitense, annunciando per settembre l’uscita del suo prossimo libro, “Exceptional: Why the World Needs a Powerful America”. Un libro che – assicura Cheney – oltre ad esporre una chiara proposta di politica estera, vuole altresì essere un’aspra e serrata critica nei confronti della foreign policy obamiana, più volte tacciata dall’ex vicepresidente di essere debole e contraddittoria: essenzialmente pericolosa tanto per la sicurezza statunitense quanto per la stabilità internazionale.
Dalle dichiarazioni e dalle interviste sinora rilasciate, appare chiaro come l’intento di Cheney sia quello di offrire al pubblico repubblicano un nuovo manifesto di segno smaccatamente neoconservatore, sostanzialmente in linea con il suddetto discorso tenuto dalla Rice a Tampa nel 2012. Proprio come quest’ultima, che in quell’occasione parlò della necessità per l’America di attuare una coraggiosa distinzione teologico-politica tra amici e nemici, anche Dick ha nel corso di questi anni ribadito una simile esigenza: quella, cioè, di dividere il mondo in due schieramenti netti per individuare al meglio i nemici da colpire. Una riedizione sostanziale della cosiddetta Dottrina Bush e della sua opposizione all’ “Asse del Male”. In un simile quadro si inseriscono d’altronde le critiche di Cheney alla politica obamiana tanto in relazione a Cuba quanto (soprattutto) verso l’Iran: il problema – secondo l’ex vicepresidente – sarebbe infatti quello di una debolezza strutturale. L’ironico dramma di una superpotenza che abdicherebbe spontaneamente (e sciaguratamente) al suo ruolo di guardiano internazionale.
E’ chiaro come questa serie di tesi e critiche si incastoni nell’ambito di una prospettiva teoretica ben più ampia che – come si può facilmente evincere già dal titolo – affonda le sue radici nell’eccezionalismo di Thomas Paine: in quella visione teologico-politica che considera gli Stati Uniti d’America un’eccezione storica, in quanto differenti dall’Europa e dalle sue dinamiche, poiché investiti della missione di assicurare pace, progresso e prosperità al mondo tutto. Una missione politica, dalle fortissime tinte messianiche, che dovrebbe appunto realizzarsi attraverso una leadership mondiale forte. Una leadership che sia in grado di trainare l’Occidente nella difesa (e nell’imposizione) dei propri valori al cospetto del globo. Una visione grandiosa e terribile che trova nell’unilateralismo (e dunque nella guerra) il suo principale braccio esecutivo.
Portavoce di un’ideologia tanto potente quanto controversa, “Exceptional” promette di aggrovigliare ulteriormente il già complicato dibattito in seno all’Elefantino. E non è forse un caso che esca circa un anno dopo un altro libro, anch’esso scritto da un eminente rappresentante del Partito Repubblicano: “Ordine mondiale” di Henry Kissinger.
Se non si trattasse di una mera causalità, sarebbe plausibile difatti ipotizzare che la vigorosa riproposizione del neoconservatorismo da parte di Cheney possa essersi prefissata due principali obiettivi. Innanzitutto, come prima accennato, quello di arginare il dilagare della destra religiosa all’interno del GOP: a dispetto di quanto si possa superficialmente ritenere, per quanto originariamente – soprattutto nel corso dell’era reaganiana – neocon e religious right siano stati alleati, sono ormai anni che questi due mondi risultano tra loro in conflitto e competizione: anche perché – pragmaticamente – l’universo neocon ha compreso come l’integralismo religioso non ripaghi in termini elettorali. Ne sanno qualcosa i due presidenti Bush. Bush padre nel 1992 perse contro Clinton proprio perché – correndo dietro all’ultraconservatorismo religioso – si alienò la simpatia dei moderati. Il figlio invece dovette barcamenarsi tra complicatissimi equilibrismi per otto anni, dovendo far sovente fronte alle minacce di una religious right sempre più aggressiva. In tal senso allora, per quanto l’ideologia neocon sia innegabilmente pervasa da una forte componente escatologica, assume comunque come elemento di base un approccio politico di impronta più o meno realista che evita lo scivolamento nel fanatismo da predicatore evangelico.
In secondo luogo, “Exceptional” potrebbe essere stato concepito altresì proprio come una risposta a “Ordine mondiale” di Kissinger. Non sono difatti ignoti gli attriti tra quest’ultimo e l’ala più radicalmente interventista del movimento neocon, la quale giudicava la Realpolitik nixoniana come manifestazione di debolezza rispetto al comunismo (cinese e sovietico). Lo stesso Kissinger d’altronde nel suo libro non risparmia qualche stilettata tanto a Reagan quanto a G. W. Bush, fondamentalmente accusandoli di aver attuato prospettive di politica estera troppo ideologiche e aggressive. E non bisogna d’altronde dimenticare la voce che insistentemente circola da vari mesi, secondo cui Kissinger sarebbe diventato l’artefice della foreign policy della seconda amministrazione Obama, permettendo il passaggio da un approccio idealista e fanatico (Primavera Araba e guerra in Libia) ad uno più concreto e pragmatico: si veda la distensione con Cuba e con l’Iran.
Quella stessa distensione che i neocon rimproveravano prima a Nixon e ora (Cheney in testa) allo stesso Obama, come sintomo di arrendevolezza e insicurezza perniciosa. Per quanto difatti Dick, all’inizio della sua carriera politica, abbia fatto parte del gabinetto di Nixon, egli si è poi comunque spostato su posizioni radicalmente neoconservatrici, soprattutto all’indomani dell’11 settembre. In tal senso “Exceptional” potrebbe rappresentare un manifesto politico di equidistanza tanto dal fanatismo ultrareligioso quanto dal realismo kissingeriano, giudicato senz’anima e – in fin dei conti – troppo europeo per un gusto eccezionalista alla Thomas Paine.
Staremo a vedere se l’appello di Cheney sarà ascoltato. Se sarà tradotto in pratica o se sarà invece destinato a rimanere nell’astrazione della teoria. Intanto, a ben vedere, sembra proprio che la compagine neocon si stia riorganizzando, guardando a candidati che effettivamente potrebbero esserle graditi: si pensi a un falco come Marco Rubio ma soprattutto a Jeb Bush, il quale – qualche mese fa – forse non casualmente ha scelto quali consiglieri di politica estera uomini di comprovata fede neoconservatrice come Paul Wolfowitz e John Negroponte.
I neoconservatori affilano le lame e sembrano pronti per una nuova scalata al potere. La partita, ancora una volta, si giocherà sulla politica estera. Sulla scelta tra distensione e interventismo, tra compromesso e unilateralismo. Tra i ricorsi della Storia e il mito di un’eccezionalità messianica senza tempo.
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