America
La rivoluzione del New Hampshire
Una tempesta si è abbattuta sul New Hampshire: modellando così inesorabilmente il corso di questa campagna elettorale.
Innanzitutto per i democratici. Il candidato socialista, Bernie Sanders, ha battuto Hillary Clinton di ventidue punti percentuali, in uno Stato non solo di tendenza storicamente moderata ma che aveva visto anche vincere l’ex first lady in occasione delle primarie del 2008. Un colpo durissimo per Hillary, che adesso – non nutrendo eccessive speranze per il quasi inutile caucus del Nevada – punta tutto sul South Carolina, convinta di poter avviare lì la tanto agognata riscossa. Ma le incognite restano tante. Innanzitutto già nel 2008 i sondaggi l’avevano data sicura vincitrice nel Palmetto State, quando invece alla fine fu Barack Obama a prenderselo. In secondo luogo, poi, Sanders – che pure in loco parte svantaggiato – ha già oggi avviato lì una massiccia campagna elettorale, per contendere alla rivale il fondamentale voto degli afroamericani. Il South Carolina è quindi stavolta un test importantissimo per Hillary, perché, dopo la batosta incassata in New Hampshire, non può certo agitare come un trofeo la risicatissima vittoria rimediata in Iowa.
Tumulto poi in casa repubblicana. Vince Donald Trump, confermando quanto asserito dai sondaggi nei giorni scorsi. Una vittoria notevole, perché il miliardario non soltanto riesce a conferire sostanza alla propria candidatura. Ma soprattutto perché è stato in grado di sfondare in uno Stato tradizionalmente moderato (che nel 2012 vi vide vincere Mitt Romney e nel 2008 John McCain). Questo dato testimonia quanto sia semplicistico bollare Trump ipso facto come un “conservatore”, avvicinandosi la sua figura politica più a quella di un maverick: anche piuttosto eccentrico rispetto al partito repubblicano.
Non stupisce poi il secondo posto del governatore dell’Ohio, John Kasich. Centrista e vagamente sinistrorso, si trovava a suo agio con un elettorato come quello del New Hampshire. Avrà invece vita dura nei prossimi Stati in cui si voterà: a partire dal conservatore South Carolina. Sorprendente invece il terzo posto di Ted Cruz: il senatore texano ultraconservatore, tendenzialmente vicino agli evangelici, è riuscito ad ottenere un ottimo piazzamento in seno a uno Stato in cui questa quota elettorale non è mai risultata decisiva. Disastroso Marco Rubio: che ha scontato la pessima performance registrata nel dibattito televisivo di Manchester e – da favorito per il secondo posto – è crollato in sesta posizione. Male anche il governatore del New Jersey, Chris Christie: nonostante le ingenti risorse impiegate nel Granite State, si è difatti fermato a un deludente 7%, vedendo andare in fumo le sue speranze di conquistare la nomination. E difatti si è appena ritirato dalla corsa, insieme a Carly Fiorina.
Infine c’è Jeb Bush. Che si aggiudica un discreto quarto posto. Non una posizione eccezionale. Ma a ben vedere – al momento – è forse quello messo nella situazione migliore. Innanzitutto – anche grazie a Christie – è riuscito almeno in parte ad arginare la concorrenza di Rubio. In secondo luogo, bisogna ricordare che il prossimo appuntamento elettorale per i repubblicani saranno le primarie del South Carolina: Stato in cui Jeb può contare sul suo potentissimo network e su finanziamenti copiosi da parte del SUPER PAC, Right to rise (che nelle ultime settimane ha speso circa undici milioni di dollari in spot televisivi in loco). Una potenza di fuoco che i suoi diretti competitor centristi (Kasich e Rubio) non possono minimamente permettersi. E la speranza dell’ex governatore della Florida è proprio questa: rimanere l’unico moderato a combattere contro il radicalismo dei Trump e dei Cruz: diventando il candidato su cui cioè l’establishment possa finalmente puntare, senza indugi.
Del resto, l’attesa paziente è la strategia dei predatori. E dopo mesi di ombra e nebbia fitta, sembra proprio che il predatore sia tornato.
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