America
La politica estera secondo Bernie Sanders
Lo scontro per la nomination democratica tra Bernie Sanders e Hillary Clinton ha ormai preso la piega di un duello spietato: con il candidato socialista che attacca ripetutamente le alte sfere della finanza americana, invocando al contempo la lotta alla disuguaglianza e la difesa dei posti di lavoro. Una visione radicale, che punta principalmente ad attrarre l’elettorato di sinistra: il grande punto debole di una Hillary ancora da molti considerata troppo moderata e per questo incapace di rappresentare credibilmente gli interessi della middle class.
E Sanders lo sa bene. Soprattutto nel corso dei confronti televisivi, non perde mai difatti occasione per tacciare l’avversaria di conservatorismo e sostanziale sudditanza verso i munifici finanziatori di Wall Street (Goldman Sachs in testa). E proprio quando nei dibattiti vengono affrontati i temi di domestic policy, l’ex first lady si trova assai spesso costretta sulla difensiva: in perenne difficoltà nel giustificare il proprio passato centrista e i grandi finanziamenti che riceve, davanti a un elettorato sempre più inquieto e anti-sistema.
Sennonché la ruota gira. E le cose sovente cambiano quando si passa alle questioni di politica estera. Qui è solitamente Hillary a farsi più energica, aggressiva, sicura. E questo non soltanto per la sua pregressa esperienza come segretario di Stato durante il primo mandato dell’amministrazione Obama (dal 2009 al 2013). Ma anche perché, a ben vedere, sotto molti aspetti, la foreign policy rappresenta uno dei punti maggiormente controversi dell’offerta politica di Sanders.
Soprattutto per il fattore dell’esperienza. Dapprima sindaco di Burlington e senatore del Vermont dal 2007, nel corso della sua carriera il candidato socialista non ha mai mostrato un eccessivo interesse per le problematiche di esteri (in Senato ha fatto parte di commissioni inerenti ad altri settori: Budget, Previdenza sociale, Ambiente, Energia, Veterani).
Proprio per questo, dallo staff di Hillary non fanno che accusarlo di inesperienza e sostanziale “ingenuità” sull’argomento. Un’accusa parzialmente fondata, vista l’evasività con cui Sanders frequentemente risponde alle domande in materia di politica estera. E Hillary non perde occasione per collegare il tendenziale isolazionismo dell’avversario all’inesperienza. Ha ragione? Si tratta di attacchi capziosi oppure qualcosa di vero c’è? Ma innanzitutto: che cosa sostiene specificamente Bernie Sanders nelle sue proposte di foreign policy?
Se forse parlare di isolazionismo puro appare eccessivo, è fuori discussione che le prospettive del candidato socialista risultino differenti da quelle di Hillary. A livello generale, egli ha più volte dichiarato che l’America deve difendere, sì, i propri interessi e la libertà altrui. Ma deve farlo attraverso l’uso primario della soluzione diplomatica, lasciando che il ricorso alla forza risulti l’ultima opzione. Una posizione, in sé stessa, molto generica, che probabilmente la medesima Hillary potrebbe sottoscrivere. Sennonché, quando si scende poi nei problemi concreti, le differenze emergono.
Prendiamo la questione dello Stato Islamico. Entrambi gli avversari si dicono favorevoli alla creazione di una coalizione che coinvolga in primo luogo gli stati mediorientali (dalla Giordania all’Arabia Saudita). Ma mentre Hillary non esclude affatto un intervento statunitense militare diretto, Sanders è sempre apparso molto più cauto sulla questione e a mezza bocca ha fatto quasi capire di essere profondamente restio a una tale eventualità.
Sfumature simili emergono anche nei rapporti con la Russia. Mentre l’ex segretario di Stato ha sempre mostrato un atteggiamento guardingamente aggressivo verso Vladimir Putin (non escludendo affatto il ricorso all’opzione militare), Sanders mantiene anche qui una certa cautela un po’ generica, invocando pressioni internazionali e il primato della strada diplomatica.
Situazione abbastanza affine con il conflitto israeliano-palestinese, rispetto a cui il candidato socialista di origini ebraiche sta adottando una posizione tendente alla neutralità: ha sostenuto che atrocità e ingiustizie sono state commesse da entrambe le parti e che il ruolo statunitense dovrebbe essere quello di favorire una negoziazione in grado di portare alla creazione pacifica di due stati separati. Niente di più lontano dalle prospettive di Hillary, tendenti di contro ad una politica più apertamente filo-israeliana.
Più in generale poi, la polemica tra i due rivali, tocca proprio l’interventismo statunitense. Durante il dibattito televisivo dello scorso 11 febbraio a Milwaukee (in Wisconsin), Sanders lo ha criticato aspramente, affermando che le guerre condotte dall’America per destituire dittatori finiscano poi sovente col produrre aree di instabilità. Ed ha subito puntato il dito contro la guerra in Iraq: uno dei leitmotiv principali della campagna di Bernie. Sono difatti mesi che il socialista sta attaccando ad nauseam l’ex first lady, per l’appoggio dato all’invasione irachena da senatrice nel 2002. Si tratta di un’effettiva incongruenza, visto che oggi Hillary non fa che ripetere quanto quel conflitto sia stato un errore. Ma anche di un alibi per lo stesso Sanders, che assai spesso – in comizi, interviste e dibattiti – si è trovato a glissare su specifiche domande di esteri, tirando in ballo l’Iraq alla stregua di un deus ex machina. Senza infine dimenticare come Hillary non perda occasione per rinfacciargli di aver appoggiato l’intervento bellico contro Gheddafi nel 2011.
Sempre nel corso del dibattito democratico di Milwaukee è emersa poi un’altra interessante polemica: quando Sanders ha criticato la rivale per aver dichiarato di ispirarsi a Henry Kissinger sulle questioni di foreign policy. Bernie ha caricato a testa bassa: non soltanto il segretario di Stato di Richard Nixon avrebbe creato instabilità in Cambogia, permettendo l’ascesa di Pol Pot. Ma addirittura la sua apertura a Pechino del 1972 avrebbe favorito il trasferimento delle grandi aziende americane sul suolo cinese, con conseguenze disastrose per i posti di lavoro statunitensi.
Ed è proprio qui che allora si comprende come il tentativo di ridurre la politica estera di Sanders alla sola inesperienza sia un giudizio riduttivo. Perché sarà anche vero che non disponga di eccessiva competenza in materia (per quanto – riporta Politico – sembri stia in questi giorni finalmente costruendosi uno staff di esperti, da Lawrence Korb del Center for American Progress a Lawrence Willkerson, ex consigliere di Colin Powell). Tuttavia le posizioni espresse sugli esteri dal candidato socialista riflettono in buona parte le sue prospettive di economia e domestic policy. In altre parole, il suo tendenziale isolazionismo altro non è se non la logica conseguenza delle politiche economiche protezionistiche che da tempo propone: tra cui la ferma opposizione ai trattati internazionali di libero scambio, come la Trans Pacific Partnership.
Un recente articolo di Emile Simpson apparso su Foreign Policy ha d’altronde mostrato come le varie anime del populismo americano stiano oggi puntando a smantellare i due pilastri della politica statunitense degli ultimi decenni, due pilastri inscindibilmente interconnessi: interventismo militare ed espansione del libero mercato. Tanto che l’attuale campagna per le presidenziali del 2016 appare sempre più caratterizzata dalla contrapposizione di due linee, ormai trasversali ai principali partiti: i falchi e gli isolazionisti. I primi, rappresentati ormai da Hillary Clinton. I secondi, da Donald Trump e lo stesso Bernie Sanders.
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