America

La giustizia secondo Trump

22 Dicembre 2016

Se c’è un fronte caldo che aspetta Donald Trump nei prossimi mesi, certamente è quello della giustizia. Ottenuta lunedì scorso senza troppi problemi l’investitura presidenziale da parte dei grandi elettori, il miliardario è ancora alle prese con le nomine per la nuova amministrazione. E in materia di giustizia, appunto, il percorso appare piuttosto tortuoso. Nella fattispecie, sono due le principali questioni che dovrà affrontare: la nomina del prossimo Procuratore Generale e quella del sostituto del defunto giudice, Antonin Scalia, alla Corte Suprema. Due questioni di peso, che – in modo diverso – hanno contribuito ad avvelenare non poco il dibattito politico degli ultimi mesi.

Per la successione di Loretta Lynch al Dipartimento di Giustizia, la scelta di Trump è ricaduta su Jeff Sessions. Senatore ed ex Procuratore Generale dell’Alabama, Sessions presenta un profilo di stampo profondamente conservatore e tendente ad aggressive istanze law and order. Particolarmente duro in materia di immigrazione, è stato tra i primi sostenitori del miliardario, che adesso vorrebbe ripagarlo con un incarico di assoluto rilievo. Certo, è difficile pensare si tratti soltanto di riconoscenza. Un profilo come quello di Sessions difatti è abbastanza in armonia con il programma securitario promosso da Trump in campagna elettorale. E non sarà del resto un caso che, per la guida del Dipartimento di Giustizia, il magnate avesse preso inizialmente in considerazione un’altra figura legata all’ultraconservatorismo, come quella dell’ex avversario Ted Cruz. E lo stesso nome dell’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani, era brevemente circolato per la medesima poltrona. Sotto questo aspetto, la scelta di Sessions quindi non stupisce più di tanto.

Il grande interrogativo riguarda semmai un problema di opportunità politica. Eh sì, perché al di là delle posizioni ideologiche molto destrorse, su Sessions pendono critiche e accuse di razzismo. In tal senso, il Partito Democratico non ha granché gradito l’annuncio della sua nomina, mentre varie organizzazioni dell’universo liberal hanno già promesso barricate pur di impedirne la conferma. Non bisogna dimenticare infatti che – secondo la Costituzione – è il presidente a scegliere i propri ministri ma soltanto previa approvazione del Senato. Ora, è pur vero che l’intero Congresso risulti attualmente in mano al Partito Repubblicano. Ma è altrettanto indubbio che i numeri nella camera alta siano piuttosto risicati: per la conferma servono infatti 51 voti e i senatori del Grand Old Party sono appena 52.

In tal senso, non soltanto è abbastanza prevedibile che sulla questione i democratici voteranno compattamente contro. Ma – come ravvisa oggi The Hill – nelle prossime settimane si creerà una pressione mediatico-politica talmente forte che potrebbe favorire qualche defezione dalle parti dell’elefantino. La battaglia sulla nomina di Sessions si avvia ad essere infatti un argomento centrale del dibattito politico. E finirà probabilmente col mettere in secondo piano altre nomine controverse ma comunque meno eclatanti (come quella del filorusso Rex Tillerson a segretario di Stato).  Del resto, in Senato già si affilano le armi: i democratici stanno chiedendo del tempo per analizzare i documenti inviati da Sessions, mentre i repubblicani accusano i rivali di volerla tirare per le lunghe. A tutto questo si aggiunga poi che l’opposizione a Sessions rappresenti oggettivamente la prima possibilità che si offre al Partito Democratico per ricompattarsi dopo mesi di lotte intestine: a maggior ragione quindi lo scontro sulla sua investitura potrebbe rivelarsi particolarmente aspro. E non sarà un caso che, nei giorni scorsi, figure di spicco del Partito dell’Asino (a partire da Elizabeth Warren) abbiano usato parole non particolarmente tenere contro il senatore dell’Alabama. E un eventuale impantanamento su una nomina così importante si rivelerebbe un problema non di poco conto per il neopresidente.

Il secondo nodo che aspetta Trump attiene invece alla Corte Suprema. Dopo la morte del giudice conservatore Antonin Scalia lo scorso febbraio, Barack Obama ha nominato come suo sostituto il centrista Merrick Garland: un’opzione che ha finito con lo scontentare tutti. Se la destra vedeva Garland come troppo blando, la sinistra – al contrario – lo considerava eccessivamente moderato. Non bisogna difatti dimenticare che da anni la Corte sia spaccata al suo interno tra due fazioni ideologiche e dottrinarie contrapposte: gli originalisti (secondo i quali la Costituzione si fonda su principi immutabili) e gli storicisti (secondo cui la Costituzione dovrebbe evolversi, adattandosi allo spirito dei tempi). Se la prima corrente si pone più vicina al Partito Repubblicano, la seconda è invece tendente al fronte democratico.

Proprio per questo, i repubblicani (già in possesso della maggioranza al Senato dal 2014) avevano bloccato la nomina. In particolare, il leader della maggioranza, Mitch McConnell, aveva opposto a Obama la cosiddetta “Regola di Biden”, riferendosi, cioè, a quando nel 1992 Joe Biden sostenne che l’allora presidente George H. Bush non dovesse nominare un giudice alla Corte Suprema, poiché giunto allo scadere del suo mandato presidenziale. La questione è piombata quindi in una fase di stallo, finendo col coinvolgere anche la campagna elettorale per la Casa Bianca.

Durante le primarie repubblicane, fu soprattutto Ted Cruz ad utilizzare la sostituzione di Scalia per dipingere Trump come un repubblicano fasullo, pronto a scegliere come giudice un liberal. Il miliardario, dal canto suo, rispose proponendo una rosa di nomi molto destrorsi da cui promise avrebbe scelto il degno sostituto di Scalia. Promessa che il neopresidente ha recentemente confermato. E anche qui si aprono degli interrogativi sul futuro. Una simile nomina, farebbe pendere la Corte nuovamente a destra (con 5 giudici conservatori e 4 liberal). Non dobbiamo trascurare infatti che – nonostante alcune rotture clamorose con l’ortodossia reaganiana – il miliardario, in campagna elettorale, abbia comunque fatto propri alcuni capisaldi ideologici tradizionali del Grand Old Party: in particolare la difesa del II Emendamento e la condanna dell’aborto. Certo, bisognerà attendere il nome effettivo per capire quante possibilità il nuovo candidato alla Corte abbia di attraversare illeso l’esame da parte del Senato. Ma una cosa è certa: i democratici non molleranno tanto facilmente.

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