America
Hillary e la condizione della speranza
È lei che ha attraversato la Storia, con quei dieci passi sul palco della convention di Philadelphia andando incontro ad Obama alla fine del suo discorso. Il Presidente degli Stati Uniti aveva appena finito di dire che c’è in America una sola persona capace di guidare il Paese, più qualificata di lui e di suo marito Bill Clinton, e quella persona è Hillary, la prima donna candidata alla Presidenza del paese più importante del mondo.
Quando mai si era sentito un uomo, un uomo di potere, presentare così una donna, e passarle il testimone chiedendo alla gente della sua generazione di sostenerla come hanno sostenuto lui per otto anni? Una donna che potrebbe essere sua madre, e che per la prima volta propone una generazione precedente, senza “rottamare” per continuare ad esistere, una donna che ricorda la genealogia femminile come motore della storia: “Oggi sono qui davanti a voi come la figlia di mia madre e la madre di mia figlia”.
Obama non ha avuto bisogno di rottamare per avere successo. E Hillary non ha avuto bisogno di odiare il giovane avvocato nero che l’aveva sconfitta alle primarie otto anni prima; e non si era sentita finita per quella sconfitta, ma aveva saputo lavorare per il suo Paese da Segretario di Stato. E poi staccarsi dal governo per preparare la ricandidatura, lavorando sui diritti civili e sulla solidarietà, come aveva sempre fatto da una vita, combattendo, con determinazione, con passione perché no, anche se pochi gliela riconoscono la forza della passione nel suo agire politico.
Non è stata soltanto la passione per il potere, che può sostenere, uomini e donne, nella corsa verso il tetto del mondo della politica, come può essere la Presidenza degli USA. È stata la passione di costruire, con la politica, gli strumenti giuridici per cambiare la società, in un paese in cui la tradizione giuridica è completamente diversa da quella europea, ma in cui le premesse e le regole dello Stato di diritto sono il fondamento irrinunciabile per esercitare il governo.
Tutti i presidenti democratici americani dell’ultimo secolo hanno avuto una formazione giuridica, ma nessuno tra i più grandi di loro l’ha spesa per difendere il passato: non Roosvelt, non Kennedy, né Clinton tra gli ultimi. Hanno lavorato a pensare e a scrivere leggi nuove e diverse, capaci di accompagnare i cambiamenti della società, anticipandoli o orientandoli, come con il New Deal o la nuova frontiera. Un’idea del diritto opposta a quella delle menti confuse che hanno partorito la nostra riforma costituzionale. Perché è un’idea di futuro, quando c’è stata, non solo di equilibrio o di formalismo strumentale.
Ed ora Hillary (uno dei 100 migliori avvocati d’America): l’ultima sfida di una storia democratica che ha saputo esprimere un presidente nero in un paese ancora in larga parte razzista, e che deve sfondare oggi l’ultima barriera invisibile: il soffitto di cristallo, quello che ha schiacciato da sempre le donne nei piani bassi del potere, lontane dai luoghi dove si decidono la vita e la storia dei popoli.
Il senso di questa sfida era nell’appello di Hillary che teneva per mano una bambina, indicando nella futura generazione di donne quella per cui sarà normale che una donna possa diventare Presidente, dopo che lei per prima, in questi giorni, ha conquistato la nomination dopo una campagna durissima, piena di difficoltà politiche e senza esclusione di colpi. Non è un dettaglio opzionale, è la democrazia che finalmente diventa accessibile pienamente per tutti, non soltanto per chi da sempre ha esercitato il potere.
Nervi d’acciaio per attraversare tutta questa storia, 69 anni di nervi d’acciaio, e questo lo rimproverano a Hillary, come se fosse cinismo, spregiudicatezza, disumanità. Ma non si diventa il “comandante in capo” di una grande paese con la retorica delle emozioni romantiche. Si deve dimostrare di sapere gestire le emozioni, “senza paura e senza mollare mai”, con lucidità, con fermezza, senza farsene travolgere, sapendo calcolare costi e benefici freddamente, come lei ha saputo fare, sempre, a cominciare dalle infedeltà del marito, senza perdere la testa, mai.
Si può discutere e dissentire nel merito del programma di Clinton sui problemi dell’America e sul quadro internazionale di cui gli Stati Uniti sono ancora il perno. E questa è questione che interessa tutto il mondo, come spesso dimentica chi non teme abbastanza l’eventualità che Presidente diventi Trump, che non ha nessuna delle qualità necessarie a svolgere quel ruolo.
Ma non si può ignorare che in campo Hillary Clinton oggi è la persona più preparata, capace, esperiente, equilibrata, per essere una Presidente credibile ed efficace, e questo lo riconoscono tutti, anche tanti avversari politici, come Bloomberg, l’ex sindaco repubblicano di New York che ha dichiarato che preferisce votare lei piuttosto che l’inaffidabile Trump.
Ora che le candidature sono formalizzate, la sfida americana si profila come un archetipo del conflitto culturale e politico che vive oggi in tutte le democrazie del mondo: lo scontro tra il populismo e la politica di qualità, tra il metodo “spettacolare” che accarezza e fomenta il disagio sociale per stravolgerlo in una aggressività violenta quanto sterile e la capacità politica di elaborare proposte, mediare interessi diversi verso un bene comune possibile, risolvere i problemi con la capacità di essere classe dirigente responsabile. La rappresentanza contro la rappresentazione.
Trump è il pericolo che si affermi definitivamente un nuovo archetipo, rozzo, volgare, non nel galateo ma nella capacità di rispettare i diritti e le regole della civiltà democratica. Un archetipo che ha qualche campione in Europa, e che ha già prodotto un vulnus sanguinante con il referendum pro-Brexit nel Regno Unito. Un archetipo di rappresentazione che rimanderebbe obbligatoriamente ad altri poteri, nascosti, invisibili, la direzione reale del governo.
Hillary rappresenta una tradizione democratica e giuridica progressista ma non estrema, compatibile con l’economia di mercato ma capace di porre delle condizioni e di difendere i diritti sociali fondamentali, oltre ai diritti civili esclusivamente liberali, che com’è noto, non servono a dare da mangiare agli affamati e non ne esauriscono le esigenze vitali. Ma lo potrà fare esprimendo una intelligenza collettiva, politica, lavorando “together” (insieme), non “I, alone” (Io, da solo) come dice Trump, lontano, inequivocabilmente, dalla democrazia così come l’abbiamo conosciuta storicamente.
Il rischio veramente grave è che fasce consistenti della popolazione ritengano che oggi della democrazia si possa fare a meno, non riconoscendola più come la condizione fondamentale, irrinunciabile, per vivere nella libertà e in un orizzonte di giustizia possibile. La condizione della speranza.
Non è un rischio soltanto americano, purtroppo. Se ne parla troppo poco in Italia, al di là delle tifoserie politiche mediatizzate. Si parla poco del merito, della sostanza di questa sfida. Non è un buon segno.
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