America

Kamala Harris è diventata populista?

17 Agosto 2024

Nelle scorse ore il team di Kamala Harris, candidata democratica alla Presidenza degli Stati Uniti, ha rivelato alcune delle politiche economiche che faranno parte del suo programma. Le reazioni da parte di commentatori ed esperti non sono però state entusiaste. Secondo il The Washington Post, le proposte di Harris hanno un sapore populista; sulla stessa riga anche la CNN che in un articolo sottolinea lo natura populista delle proposte rivolte in particolare alla classe media e lavoratrice.

In particolare, il controllo dei prezzi sui generi alimentari, per salvaguardare i consumatori da aumenti spropositati, ha destato molte preoccupazioni. Le politiche di controllo dei prezzi non sono benviste all’interno della comunità economica. L’idea dietro questo scetticismo non è altro che la legge di domanda e offerta. Se un bene viene venduto a un certo prezzo, che si considera ottimale, l’imposizione da parte dello stato di un prezzo inferiore andrà ad influenzare il comportamento delle aziende. Per far fronte a questa diminuzione dei ricavi, le aziende produrranno di meno portando, in casi estremi, a fenomeni di scarsità stessa del bene prodotto. Commentatori economici come Noah Smith e accademici come Jeffrey Wooldridge hanno criticato la misura, sostenendo che le proposte di Harris non devono cadere verso un progressismo troppo spinto a livello economico.

Eppure negli ultimi anni, soprattutto per far fronte all’inflazione, al calo del potere d’acquisto da parte dei ceti medio bassi, all’incremento dei beni energetici, le misure di controllo dei prezzi hanno ricevuto maggior attenzione da parte della politica e anche di una certa fazione, eterodossa, del mondo economico. A stimolare il dibattito, in un primo momento, è stato un articolo di Isabella Weber, professoressa di economia alla University of Massachusetts Amherst, pubblicato sul The Guardian. Uscito sul finire del 2021, l’articolo di Weber sosteneva che per far fronte a un’inflazione che cominciava ad alzare la testa ci fosse una terza via rispetto al non fare nulla o a un aumento dei tassi, che avrebbe potuto portare a una recessione economica: un controllo strategico sui prezzi. Nel corso della sua carriera, infatti, Weber ha approfondito il caso della Cina e la transizione dall’epoca di Mao a quella di Deng, dove vennero iniettati degli elementi di libero mercato all’interno di un’economia di stampo socialista. A differenza della Russia di Yeltsin, dove la shock therapy annientò il paese per dieci anni e portò all’ascesa degli oligarchi e di Putin, la Cina seguì un percorso più graduale con l’introduzione di un sistema di controllo dei prezzi che garantivano da una parte prezzi bassi per i consumatori dall’altra incentivi alle aziende a essere più efficienti.

In generale, politiche di controllo dei prezzi rischiano di essere buone nelle intenzioni, ma con risultati spesso deludenti.

Analizzare la questione soltanto con le lenti dell’economia rischia però di portarci fuori strada. Le elezioni che a novembre segneranno uno spartiacque per gli Stati Uniti non si svolgeranno nei dipartimenti universitari. Se è corretto e condivisibile, almeno a un’analisi grossolana, affermare che politiche di controllo dei prezzi risultano dannose, dal punto di vista politico sono invece molto efficaci. Secondo un sondaggio di Blueprint, iniziativa per la ricerca elettorale nata con lo scopo di individuare i temi su cui i democratici dovrebbero puntare, l’81 per cento degli intervistati supporta politiche di controllo dei prezzi per il contrasto all’inflazione e al carovita. La proposta è supportata da buona parte degli elettori indipendenti, da quelli afro-americani e dagli elettori tra gli elettori giovani e adulti.

Non si tratta quindi di una questione meramente economica, ma anche politica. Se è vero che la proposta non piace agli accademici e agli esperti, allo stesso tempo sembra fare presa sull’elettorato. Questo non è affatto un caso isolato: dopo la pandemia vari partiti di centrosinistra-e non solo- si sono spostati su posizioni “populiste” per intercettare quelle fasce di elettori che richiedono sempre di più protezione da parte dello Stato. Appare esserci quindi un netto cambiamento dal punto di vista della narrazione sulle politiche economiche, come già aveva osservato nel suo Controllare e Proteggere il sociologo Paolo Gerbaudo: segnate dalle crisi degli ultimi anni, sia la classe lavoratrice sia la classe media non guardano più al futuro con aspettative rosee, sperando nella forza del mercato di sollevare tutte le barche. C’è invece una richiesta di maggior protezione e di un ruolo dello stato più deciso, in grado di garantire prosperità e sicurezza. L’idea che si vince al centro non ha mai avuto solide basi. Anzi, spesso si basa su una versione- incompresa o manipolata- del Teorema dell’Elettore Mediano che viene da chiamare “elettore gaussiano“: la mediana coincide con la media- e quindi il centro dal punto di vista politico. In realtà la questione, come già accennato, è molto più complessa, soprattutto in un paese con un’elevata polarizzazione come gli Stati Uniti.

Non è da escludere che certe politiche contenute nell’agenda dei Democratici e di Kamala Harris potranno essere implementate. A quel punto l’analisi dovrà essere più circostanziata, andando a comprenderne l’implementazione, il contesto macroeconomico e via discorrendo. Quello che però è importante sottolineare, per concludere, è che in questa fase quello che conta non è tanto se la policy è conforme o meno alla teoria economica, ma se riuscirà a convincere gli elettori, soprattutto quelli indecisi. Una sorta di rivincita, quindi, della politica sull’economia.

 

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