America

Jeb Bush sceglie Paul Wolfowitz: i neoconservatori stanno tornando?

22 Febbraio 2015

L’intervento con cui il 18 febbraio scorso Jeb Bush ha di fatto lanciato la propria candidatura per le primarie del 2016 offre non pochi spunti di riflessione soprattutto sotto l’aspetto più marcatamente ideologico, nell’ambito di uno schieramento – quello repubblicano – sovente avvezzo ad un’estenuante dialettica intestina.

Da sempre considerato a sinistra all’interno del Grand Old Party, la sua figura – forse proprio per questo – non ha mai goduto di un seguito particolarmente cospicuo nell’ambito del fronte conservatore. Se difatti le sue aperture su tematiche come l’immigrazione sono osservate da alcuni analisti come una risorsa elettorale non di poco conto nella disfida presidenziale post-obamiana, dall’altra parte è altresì vero che potrebbero rivelarsi un’arma a doppio taglio: l’attrazione di elettorati storicamente restii al voto repubblicano potrebbe verosimilmente determinare l’allontanamento dei voti più tradizionali (e radicali).

Forse anche per scrollarsi di dosso quindi un’immagine troppo centrista (alla Mitt Romney), nell’intervento della sua discesa in campo Jeb ha deciso di concentrarsi sostanzialmente sul problema della foreign policy: e lo ha fatto nella maniera più decisa possibile.

Dopo alcune dichiarazioni iniziali, con cui il futuro candidato ha voluto (forse un po’ troppo insistentemente) rimarcare la propria autonomia di pensiero ed azione rispetto al padre e al fratello, le sue parole si sono poi dirette al cuore della questione: una critica aspra nei confronti della politica estera di Obama, brutalmente tacciata di essere “inconsistent and indecisive”.

Una critica da cui Jeb ha tratto un programma di politica estera essenzialmente incentrato sui canoni classici del si vis pacem, para bellum: valorizzazione della forza militare e ripristino della leadership statunitense a livello globale. Il tutto – se vogliamo – sintetizzato dalla seguente affermazione: “We have no reason to apologize for our leadership and our interest in serving the cause of global security, global peace and human freedom”. Parole in cui risuona chiaramente l’eco dei discorsi di G. W. Bush sulla missione storica che gli Stati Uniti avrebbero nella diffusione mondiale dei principi di pace, libertà e democrazia (la cosiddetta Dottrina Bush).

Alla luce di questo discorso, è lecito allora interrogarsi su che cosa l’eventuale politica estera di Jeb potrebbe effettivamente differenziarsi da quella condotta dalle ultime amministrazioni repubblicane. Tanto più che – al netto dell’enfatizzata originalità – un’ulteriore particolarità emerge dalla lista dei collaboratori in materia di foreign policy da lui presentata: come mostra difatti il “Washington Post”, si tratta per la maggior parte di figure-chiave delle precedenti amministrazioni di segno repubblicano (nomi come John Negroponte, Stephen Hadley, James Baker).

Ma è su una di queste figure in particolare che forse vale la pena di soffermare l’attenzione, per cercare di fare luce sul rapporto ideologico-politico intercorrente tra Jeb e gli altri Bush: quella di Paul Wolfowitz. Vicesegretario alla Difesa sia sotto Bush padre che Bush figlio (e considerato il grande regista della politica estera di quest’ultimo), Wolfowitz è un politico di comprovata fede neoconservatrice.

Come la maggioranza dei neocon statunitensi, anch’egli vanta un passato tra le fila più militarmente interventiste del Partito Democratico: compagine da cui si è poi distaccato per confluire nell’universo repubblicano durante l’ “era Reagan”. Da quel momento la sua carriera ha presentato una decisa ascesa: contribuendo profondamente alla costruzione (organizzativa e ideologica) della corrente neoconservatrice e assumendo un ruolo sempre maggiore (a livello governativo) nelle strategie di politica estera.

La figura di Wolfowitz non è interessante tanto perché si tratti di un neoconservatore (non è certo l’unico nella lista di Jeb), quanto semmai per il fatto che costui sia l’autore della cosiddetta Dottrina Wolfowitz (elaborata all’inizio degli anni ’90): una strategia articolata in una serie di punti programmatici ben precisi (la leadership statunitense a livello globale, l’uso della forza per mantenere la sicurezza internazionale). Una serie di punti che si pone palesemente alla base di quella stessa Dottrina Bush, che sarebbe stata presentata ed attuata, nel 2001: all’indomani dell’11 settembre.

Alla luce di tutto questo, appare allora chiaro come la scelta di Wolfowitz da parte di Jeb, quale consigliere in politica estera, costituisca un atto di profonda continuità con le amministrazioni repubblicane precedenti e – soprattutto – con la visione neoconservatrice. Quella visione neoconservatrice che potrebbe dunque non limitarsi alla sola foreign policy ma che potrebbe invece abbracciare anche il lato più “a sinistra” della prospettiva programmatica di Jeb (immigrazione in primis).

Non dimentichiamoci difatti che il neoconservatorismo affonda le proprie radici ideologiche e culturali nel Partito Democratico (in quella che era la sua ala più attivamente anti-sovietica). E questo spiega allora come i neocon risultino tendenzialmente favorevoli a politiche sociali “di sinistra”: finanche a quell’intervento statale in economia, che li rende particolarmente invisi ai difensori del libero mercato (liberali classici, austro-liberali, libertarians, ecc. ).

Per una corrente (quella neoconservatrice) che all’indomani della vittoria di Obama nel 2008 era completamente allo sbando, la candidatura di un Bush alle primarie (e soprattutto una scelta come quella di Wolfowitz quale consigliere) rappresenta in modo chiaro che il suo stato di salute è decisamente migliorato. Le premesse dunque, acchè un’eventuale presidenza di Jeb Bush possa svilupparsi sotto il vessillo del neoconservatorismo, ci sono tutte.

Bisognerà semmai capire se il GOP sceglierà di compattarsi ancora una volta sotto questo vessillo e – c’è da giurarci – la battaglia sarà aspra. Anche perché i peggiori nemici dei neocon sono spesso spuntati dallo stesso fronte repubblicano. Il problema sarà finalmente comprendere se – in un mondo frammentato e dilaniato dal fanatismo etnico-religioso – sia ancora plausibile (e giusto) sostenere l’idea di una supremazia statunitense o se ciò non si riveli piuttosto l’ennesima velleità di un impero ormai al tramonto.

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