America
Io, mio zio e una vita d’artista sprecata
Un cavaliere traballante ed allampanato cavalca verso il Messico. Deve scappare dal Texas, dove ha ammazzato due cowboys ed è stato ferito mortalmente suo zio. Ora ha i soldi, ma la sua vita è bruciata: la malinconica ballata metaforica con cui uno dei grandi del country-rock americano si è congedato dal mondo.
Il mondo di John Phillips è sempre stato a cavallo tra delinquenza e vita normale. Suo padre, militare in Francia durante la Seconda Guerra Mondiale, aveva vinto un’osteria a carte con un commilitone, per cui la famiglia, quando John aveva 10 anni, si era trasferita in Oklahoma – terra di contadini e di lunghe distese senza città. Il padre beveva troppo, e ne ha combinate di tutti i colori, per poi morire di cirrosi, non senza aver rivelato a John che mamma Edna, quell’allegrona, lo aveva avuto da un ebreo nel 1935, mentre la famiglia Philips era nata soltanto in procinto di trasferirsi in Oklahoma.
John ha sempre detto di non ricordare nulla del vero padre – un insegnante ebreo da cui lui, secondo mamma Edna, aveva preso il gusto di suonare chitarra, banjo e mandolino. Nato nel 1935, appartiene alla generazione di Elvis e, quando sbarca con le sue canzoni a Los Angeles, è il più vecchio di tutti, ed ha sulle spalle già molta esperienza come musicista di spalla e persino come jazzista, dato che ha servito tre anni nell’esercito e lì i suoi compagni di bevuta suonavano quella musica là.
Nel 1963 incontra tutti i ragazzini adolescenti che poi saranno le grandi stelle degli anni a venire, e suona con Judy Collins, Stephen Stills e Scott McKenzie, con un minimo di successo regionale. È già un padre di famiglia, avendo sposato una donna ricchissima nel 1957, con cui ha avuto due figli e poi è scappato, portando con sé la piccola Laura McKenzie Phillips. Il motivo si saprà dopo la morte di John: attaccato morbosamente alla figlia, nella pubertà l’aveva introdotta alla cocaina. I due si facevano insieme, ed a volte finivano anche a letto insieme, tanto che McKenzie, in quel momento giovine sposa incinta, abortì non sapendo chi dei due fosse il padre.
John nel frattempo era già altrimenti occupato. Autore di ottime canzoni, non ha voglia che vengano cantate da altri, e quindi mette insieme un quartetto, i Mama & Papas, scegliendo una cantante straordinaria, Mama Cass Elliott, ed una ragazza che lo faceva impazzire e nemmeno sapeva cantare, Michelle, che poi lo pianterà per il quarto componente del gruppo, il musicista ed attore canadese Donny Doherty – cosa che ha portato John alla pazzia.
Da allora in poi sono anni di successo, di galera (per droga, per furto, per molestie), di tossicodipendenza, e di canzoni che non arrivano più al pubblico. Quella da lui più amata si chiama “Me and my uncle”, e racconta della cavalcata di John e di suo zio attraverso l’America, dal Colorado al Texas, trascorsa bevendo e barando alle carte, finché si ritrovano a santa Fe e li beccano sul fatto. John canta: “Lo accusavano di barare, e no, questo non era possibile. Conosco bene mio zio, è onesto almeno quanto me, ed io sono onesto quanto lo può essere un uomo per bene di Denver”. Dopo una sparatoria, lo zio acciuffa i soldi sul tavolo ed i due scappano verso il Messico, ma lo zio muore, e John abbandona “il suo vecchio culo al lato della strada”.
Un brano sarcastico sulla cosiddetta cultura degli Stati centrali dell’America, quelli in cui i cowboys sono ancora tali, e che John non ha mai portato al successo. L’hanno fatto altri: Judy Collins, Joni Mitchell, ma soprattutto Jerry Garcia, lo straordinario chitarrista con l’indice mozzo che guidava la più grande ed indimenticabile band di country-rock della storia: i Grateful Dead. Una band che ha passato quasi 25 anni in tour, senza fermarsi quasi mai, se non per registrare le canzoni nuove, e che organizzava torpedoni per i fan, che compravano il biglietto non per un concerto, ma per un intero giro d’America, e tutte le sere, al bivacco, strafatti di mescalina, insieme alla band cercavano quello che chiamavano l’X Factor – ovvero l’attimo di perfezione tra musica e anima. Un concetto purtroppo trasformato, oggi, in un deprimente talent show internazionale.
Ma allora, tra il 1969 e la metà degli anni 80, “Me and my uncle” era l’inno selvaggio di una band di hippie scapestrati e senza patria, che cavalcavano barando al poker con la vita, di sera in sera, e ricordavano così quel John Phillips che poi, alla fine, muore da solo di droga e di cirrosi, a 66 anni, vituperato dalla figlia e da tutti coloro che lo conoscevano personalmente.
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