America
Io e Bernie nel cuore del Bronx
Giovedì mattina: un cielo grigiastro e nuvoloso sovrasta Saint Mary’s Park. Ma io ho l’ombrello. Il viaggio non è stato dei più brevi, anche perché il treno della metro da Brooklyn andava decisamente a rilento, quasi un segno premonitore di una giornata d’attesa.
E’ la prima volta che metto piede nel Bronx. Mentre sbuco dalla subway confesso di avere un po’ di timore: un concentrato di pregiudizi e sentito dire su un quartiere che – secondo qualche amico – somiglia a una specie di Far West, dove chiunque sarebbe pronto a farti la pelle da un momento all’altro. Eppure alla fine la East 149 Street non è poi così male e di mostri armati in giro francamente non ne vedo. Col navigatore che fa i capricci, mi avvio con passo un po’ incerto, non conoscendo il posto: somiglia a un lungo mercato a cielo aperto, tra fruttivendoli, pizzaioli, alimentari e panettieri. Sembrano veramente fissati col cibo. A un certo punto svolto sulla destra e mi ritrovo davanti alla meta: il parco di St. Mary, che sorge al centro di alcuni complessi residenziali dal tipico colore marroncino.
Il parco è lungo. E ai bordi subito si notano agenti di polizia schierati. I parcheggi adiacenti sono stati bloccati, mentre tutt’intorno alle entrate è una trafila di transenne e lampeggiatori. Ok, il posto dovrebbe essere questo. Mi avvicino a un poliziotto per chiedergli da che parte entrare. L’agente mi mostra il percorso da fare, aggirando un lato del parco, per accedervi poi da un’entrata alla sua destra. Mi incammino. E mentre procedo, i nugoli di poliziotti aumentano. Iniziano anche a spuntare bandiere e cartelli colorati, con le più disparate scritte: “Bernie”, “Bernie2016”, “Feel the Bern”, “Political Revolution”. Sui bordi del marciapiede inizia a spuntare qualche attivista. Ok, il posto non può essere che questo. E’ qui che stasera Bernie Sanders terrà il suo comizio per aprire ufficialmente la campagna elettorale nello Stato di New York.
Entro nel parco. Sono le 11 del mattino. C’è già una fila. Piccola, per la verità: saranno sì e no una cinquantina di persone. Se ne stanno davanti a un posto di blocco, dove la polizia sta montando dei metal detector. Sulle collinette antistanti, gironzolano un paio di tipici detective newyorchesi in giacca e cravatta, occhiali scuri e soprabiti lunghi, nel più classico stile Law and Order. Il tutto mentre gli agenti iniziano a creare delle corsie, disponendo transenne.
E’ l’ora di pranzo, qualche attivista inizia a distribuire ciambelline e un po’ d’acqua. La fila è aumentata di poco. Saremo sì e no duecento persone. Comincio a pensare che il comizio per il povero Bernie possa rivelarsi un flop. D’altronde mi sono già imbattuto in passato in alcuni eventi organizzati dai suoi attivisti ad Union Square, senza che superassero mai le poche centinaia di partecipanti. E il pensiero va subito lì: “Bernie, ma dove vuoi andare? Credi veramente di vincere nella satrapia della bionda feudataria? Credi veramente che New York volterà le spalle alla sua ex senatrice per sostenere un mezzo comunista come te? Tornatene a casa e pensa a qualcos’altro!”.
L’attesa è lunga. Ci si siede per terra, cibo poco, acqua ancora meno. Ma si aspetta. Il sole va e viene, mentre le folate di vento freddo si alternano a sprazzi di sole decisamente troppo caldi. Il sonno incombe. Mi appoggio alla transenna ma schiacciare un pisolino non è granché possibile. In uno stato di rimbambimento e stanchezza chiudo gli occhi per un po’. Poi mi riprendo e inizio a notare qualcosa. La fila si è allungata. Quantomeno raddoppiata. E la polizia inizia a far passare le persone nelle corsie predisposte la mattina. Sulla email di registrazione all’evento c’è scritto che le porte si apriranno alle 4 del pomeriggio. Sono le 2,30. E la gente inizia ad arrivare a frotte, riversandosi, ordinatamente, in direzione dei metal detector: si tratta in gran parte di giovani. Gli attivisti intanto sono indaffaratissimi: chi distribuisce volantini, chi raccoglie indirizzi email, chi scatta fotografie e interviste alla buona da postare sui social network, sotto l’hashtag #Bernie2016.
E intanto si scambia qualche parola con i presenti. Jennifer, del Queens, è arrabbiata con i mass media: “I media americani sono in mano all’establishment” – mi dice – “Non parlano mai adeguatamente di Bernie. Conosci Al Jazeera? E’ molto meglio”. Un altro ragazzo non ha invece molto in simpatia Hillary Clinton: “Pensa solo ai suoi interessi! Lei rappresenta l’1%, mentre Bernie è uno di noi”. La folla aumenta. Nella posizione in cui sono, quasi in testa alla fila, è impossibile fare una stima: sicuramente saranno qualche migliaio. L’attesa va avanti. Di tanto in tanto le persone esplodono in cori inneggianti al loro Bernie, per poi tornare a quietarsi tra schitarrate, conversazioni e sigarette. Non si vedono tuttavia stemmi o bandiere con riferimenti al socialismo storico. Non è il Che la star d’altronde: ma Bernie.
Finalmente le 4. La polizia inizia a far passare. I controlli ai metal detector sono rigidissimi: addirittura ti perquisiscono il portafoglio, mentre io ricevo una notizia tragica: non posso portarmi dietro l’ombrello (anche se minaccia pioggia). Depongo l’arma impropria, nella non molto convinta speranza di ritrovarla al mio ritorno. Del resto, io Bernie dal vivo voglio vederlo e dell’ombrello chi se ne frega. Finalmente passo. Seguendo la coda, arriviamo alla piazza dove si terrà il comizio. Il palco è piccolo, senza pretese. Mentre io riesco a piazzarmi ad appena dieci metri. Dietro giganteggia uno striscione colorato dalla scritta “Un futuro in cui credere”. L’attesa prosegue. La piazza si riempie e il clima continua nel suo balzano altalenarsi tra caldo e freddo.
Mi guardo in giro e noto un elemento interessante: per quanto la maggioranza dei presenti sia costituita da giovani bianchi (la principale quota elettorale di Bernie), non sono tuttavia pochi gli esponenti delle minoranze: non solo afroamericani ma anche ispanici (particolarmente numerosi sono i messicani e i portoricani). Segno che Bernie sta forse riuscendo nel Nord a conquistare quelle frange elettorali che a Sud gli avevano sinora voltato pesantemente le spalle. Anche New York è presente, con nutrite rappresentanze dal Bronx e da Brooklyn.
E intanto comincio a capire la folla che ho intorno: disciplinata, catechizzata, è una macchina da guerra organizzatissima. Tutti impugnano il proprio cartello “Bernie2016”. E, non appena sbuca una telecamera o una macchina fotografica, tutti lo espongono, iniziando a scandire vigorosamente all’unisono degli slogan: è un movimento di popolo, un’auto-organizzazione, un sentire comune che esplode strategicamente ma spontaneamente senza una direzione dall’esterno. Una connubio tra idealismo e strategia, che abbatte il classico muro tra attivista ed elettore: tutti sono attivisti, senza distinzione. Un corpo unico, cementato, che ha un solo obiettivo: dare il massimo di visibilità al suo Bernie, dare il massimo di visibilità al suo progetto di una rivoluzione politica. E’ una battaglia all’ultimo sangue tra loro e gli altri: senza compromessi. Ma cercando di guadagnare alla causa quanta più gente possibile.
Un corpo solo, che con fedeltà liturgica saluta all’unisono il proprio leader. Ed è proprio nella natura della leadership di Bernie che emerge la differenza rispetto a Trump. Mentre difatti il miliardario newyorchese punta tutto sul leaderismo, e quindi su un carisma prettamente personale, Bernie, dal canto suo, punta sulla fedeltà a un’idea. Una differenza fondamentale, che gli ha permesso di organizzare il suo movimento secondo i crismi di una chiesa: con la sua dottrina, la sua liturgia e la sua strategia di “evangelizzazione”. Creando, cioè, i presupposti affinché il movimento possa proseguire anche al di là della sua figura (per quanto resti onestamente difficile una simile eventualità). Trump sotto questo aspetto è più un bonapartista: è Napoleone che fonda tutto su sé stesso (fattore che gli permette una maggiore malleabilità programmatica). Sanders, di contro, somiglia più a Robespierre nella sua fede ideologica e nel monito perenne secondo cui la Rivoluzione possa divorare i suoi figli. Da un momento all’altro.
Sono le 6. E sul palco iniziano a susseguirsi testimonianze di sostenitori comuni. Un’immigrata clandestina, che sostiene Bernie per la sua riforma dell’immigrazione. Un portoricano che si definisce “democratico ma non democratico dell’establishment” e un’infermiera che chiede una riforma sanitaria energica ed egualitaria. E arrivano le 7. Sale sul palco il regista Spike Lee che introduce l’attrice Isabel Rosario Dawson. Dawson non è tenera. Sostiene Bernie per le sue politiche sull’immigrazione, poi, rivolgendosi all’ex first lady tuona: “Vergognati, Hillary!” La piazza gradisce e infatti partono i fischi contro la nemica del loro Bernie.
E proprio Bernie alla fine arriva. E’ un boato. La folla urla all’unisono “Bernie! Bernie!”, mentre lui, spettinatissimo, sale sul palco, accompagnato dalla moglie. E non appena prende la parola, la piazza piomba in un silenzio mistico. Bernie, senza fronzoli, parte subito all’attacco: “Sono molto orgoglioso di essere nato qui a New York! Io sono nato a Brooklyn! Mio padre è emigrato qui all’età di diciassette anni! Non dimenticherò mai la lezione dell’immigrazione. E questa campagna è protesa a creare una rivoluzione politica”, scandisce vigorosamente davanti a un pubblico in acclamazione. Un pubblico letteralmente in estasi: alcuni sostenitori anticipano talvolta le parole esatte che si trova in procinto di pronunciare. Slogan o espressioni formulari potenti, in grado di compattare un intero popolo dietro un unico vessillo, un’unica battaglia, un’unica causa. La lotta alla povertà e alla sperequazione, che vede oggi un’alleanza tra Brooklyn e il Bronx contro l’opulenza dell’1% di Manhattan.
“Non c’è ragione perché in questo Paese non dovremmo avere il sistema educativo migliore al mondo. E non c’è ragione perché in questo Paese ci dovrebbero essere le maggiori disuguaglianze sociali tra le nazioni più grandi”. Duro affondo poi sulla sanità: “Siete pronti a far pagare le compagnie di assicurazioni sanitarie? Siete pronti a far pagare le aziende farmaceutiche? Siete pronti a espandere il programma Medicare a tutti? Per come la vedo io, la sanità è un diritto per ogni persona!”. Non mancano poi attacchi a Hillary Clinton, tacciata ancora una volta di essere una marionetta al soldo delle alte sfere di Wall Street e di inadeguatezza nelle questioni di politica estera. “Noi non abbiamo Super PAC! Noi non rappresentiamo Wall Street, non rappresentiamo i poteri forti, non rappresentiamo i miliardari! Noi rappresentiamo le famiglie che lavorano! Questa è una campagna del popolo per il popolo!”, scandisce Bernie tra le ovazioni del pubblico, che risponde “Per il popolo!”.
Ma è su New York (dove il 19 aprile si terranno le primarie democratiche) che Bernie va giù duro. “Se riusciremo ad avere un’affluenza alta, a New York vinceremo! Portate alle urne quanta più gente potete: amici, genitori, parenti, vicini. Noi vinceremo a New York. E una volta vinto a New York, arriveremo alla Casa Bianca”. La folla ha risposto in un boato “We love you, Bernie”.
Ci sono momenti in cui si aprono gli occhi. O comunque momenti in cui la comprensione di qualcosa si fa più chiara. Giovedì sera Bernie Sanders è riuscito a mobilitare un popolo. Non so quanti potessero essere. Il New York Times ha parlato di 18.000 persone. Numeri grandiosi ma che alla fine hanno un’importanza relativa. Perché la vera capacità di Bernie è stata semmai quella di compattare mondi diversi in un’unica, potentissima, alleanza: sono gli immigrati, è il Bronx, è il Queens, è Brooklyn che si sono vigorosamente uniti per muovere battaglia all’1% di Manhattan. Sono gli arrabbiati, che non ne possono più di sperequazioni e ingiustizie che si saldano in un movimento perennemente conteso tra la speranza nel futuro e il furore barricadiero. Un paradosso magistralmente espresso dallo slogan della campagna di Bernie: Feel the Bern (senti il fuoco): espressione che può ambiguamente significare, “senti l’energia dell’entusiasmo”, ma anche, più efficacemente “incàzzati!”. Ed è proprio questa la forza e al contempo la debolezza di Bernie e del suo popolo. Da una parte, si tratta evidentemente di un messaggio divisivo, duro, arrabbiato. Un messaggio che tradisce indubbiamente lo storico ottimismo inclusivo e liberale della tradizione americana. Ma dall’altra si tratta al contempo di un messaggio che affonda le proprie radici in qualcosa di drammaticamente concreto. Che non può essere ignorato.
Perché è proprio questo il punto: New York non è l’universo patinato glamour e alla Gossip Girl di cui ci infarciscono mediaticamente il cervello. New York non sono i fighetti viziati e pieni di soldi che incontri il sabato sera a Grand Central, né gli assidui frequentatori di cocktail altolocati che si riempiono la bocca di riformismo liberal per pulirsi la coscienza. No. New York sono le scuole pubbliche disastrate nel Bronx, i ghetti delle minoranze che ancora esistono tra il Bronx e Brooklyn e gli stessi barboni in condizioni terribili che tanto spesso incontri in metropolitana. Perché giovedì sera, in quella folla, ci saranno stati sicuramente anche degli invasati e dei parassiti sociali in cerca di assistenzialismo fine a se stesso. Ma in quella folla c’erano anche disperati e lavoratori schiacciati dall’alta finanza e della crisi economica. Perché quando Sanders dice che le grandi banche americane salvate con i soldi pubblici si sono poi ingrandite prosperando, sarà magari demagogico: ma ha ragione. Perché ogni fenomeno storicamente ha una causa: e se questo radicalismo in America sta prendendo sempre più piede, non si può banalmente imputare alla demagogia o alla stupidità delle masse: perché questo significherebbe non capire la realtà o – peggio – essere intellettualmente disonesti.
Non ho molti dubbi sul fatto che il programma politico di Sanders sia in buona sostanza utopistico e scarsamente realizzabile. Né tantomeno glorifico la sua figura (che pure qualche contraddizione se la porta ambiguamente dietro). Mi limito solamente a rilevare che tra un’ex first lady avvezza a cambiare casacca, un miliardario fedele solo a se stesso, un senatore texano che confonde lo studio ovale con il pulpito e un governatore che galleggia senza voti… beh, ecco, forse Sanders non è poi la scelta peggiore.
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