America
In Iran we trust: Obama alla prova del Medio Oriente
In principio fu il Campidoglio. 3 marzo 2015: il premier israeliano Benjamin Netanyahu – su invito della maggioranza repubblicana – ha tenuto un discorso al Congresso degli Stati Uniti, essenzialmente incentrato sulla spinosa questione delle trattative che l’amministrazione Obama sta conducendo con l’Iran, per conseguire un accordo sul nucleare.
Un discorso dai toni cupi, a tratti apocalittici, intriso di un profondo e (forse un po’ troppo accentuato) messianismo politico. Un discorso teso a dimostrare come Israele e Stati Uniti sarebbero accomunati dalla medesima missione storica, uniti da quell’eccezionalismo che li renderebbe i popoli prescelti dalla Storia (e da Dio), per garantire al mondo un futuro di pace e progresso. Un discorso che, dietro un aspro attacco nei confronti dell’Iran, ha celato – neppur tanto velatamente – una critica serrata contro Obama, sostanzialmente accusato di miopia strategica, se non addirittura di furore ideologico. Un eventuale accordo con l’Iran segnerebbe dunque non solo un serio pericolo per Israele ma altresì un’inquietante minaccia per la sicurezza internazionale. Il riferimento in un passaggio del discorso all’appeasement franco-inglese del ‘38 non lascia d’altronde molto spazio all’immaginazione, evocando chiaramente lo spettro di Adolf Hitler.
Ora, questa dura presa di posizione del premier israeliano ha suscitato non poca irritazione da parte della Casa Bianca, che ha liquidato prontamente la questione parlando di retorica obsoleta. Ma il problema non si è ovviamente risolto, avviandosi – anzi – verso una rapida deflagrazione che ha coinvolto non solo – come naturale – la politica estera ma anche – e soprattutto – quella interna.
Già l’invito di Netanyahu al Congresso nel pieno delle trattative statunitensi con l’Iran e nel mezzo del periodo elettorale per Israele, ha palesemente rappresentato un chiaro atto di carattere politico da parte del GOP. Su questo si è poi innestata un’esacerbata opposizione alla foreign policy obamiana: opposizione, che è andata articolandosi su due linee differenti (per quanto complementari). Una di carattere ideologico: tesa, cioè, a difendere Israele in quanto storico alleato statunitense contro l’Iran, nemico (altrettanto storico) dello Zio Sam dai tempi della rivoluzione khomeinista. L’altra di natura politica: impostata su un forte ostruzionismo parlamentare, culminato con la lettera inviata da un gran numero di senatori repubblicani (guidati dal conservatore Tim Cotton) direttamente ai leader iraniani: una lettera smaccatamente ostile in cui si sostiene come ogni eventuale accordo che Obama possa siglare con Teheran abbia buone probabilità di essere stracciato dal suo successore. Un invito quindi a non farsi eccessive illusioni.
Un evento – quello della lettera – senza precedenti, che ha esposto gli Stati Uniti al ludibrio internazionale e che ben esemplifica il gioco al massacro che si sta consumando in questi mesi nell’agone politico americano.
Da allora gli eventi si sono dipanati abbastanza rapidamente. Da una parte Netanyahu ha incassato una vittoria elettorale importante contro ogni previsione sondaggistica e politologica: una vittoria elettorale che ha raccolto il gelo della Casa Bianca. Le speranze di Obama e Kerry erano ovviamente ben diverse: una sterzata a sinistra del governo di Tel Aviv avrebbe difatti non solo messo al sicuro le trattative statunitensi con l’Iran ma anche facilitato il tortuoso percorso di pace tra Israele e Palestina. Un percorso di pace che il bellicoso Netanyahu non ha mai visto di buon occhio e a cui ha spesso decisamente posto i bastoni tra le ruote. E se è pur verosimile che in un clima ormai post elettorale i suoi toni su tali tematiche possano ammorbidirsi, resta comunque il fatto di un astio profondo con l’attuale amministrazione americana e – c’è da giurarci – i repubblicani – proprio in vista delle presidenziali del 2016 – non perderanno occasione per gettare benzina sul fuoco nei rapporti tra Obama e il capo del Likud.
Dall’altra parte, le trattative sul nucleare tra Stati Uniti e Iran sono proseguite e l’accordo sembrerebbe ormai in procinto di essere siglato. E per quanto la vittoria di Netanyahu potrebbe rimettere tutto in discussione, sia Teheran che la Casa Bianca paiono assolutamente intenzionate a proseguire spedite nella direzione intrapresa: la prima per lasciarsi ufficialmente alle spalle il vecchio embargo statunitense e riuscire magari ad assumere in tal modo una sorta di primato economico in Medio-Oriente (minacciando così l’attuale preminenza israeliana); la seconda per estendere e rafforzare la propria influenza politico-economica, quasi a voler ripristinare – pur mutatis mutandis – i “bei tempi andati” di Reza Pahlavi.
Le incognite per il futuro sono numerose e si comprende bene come oggi più che mai le dinamiche del complicato scacchiere politico medio-orientale trovino nei palazzi di Washington il proprio turbolento epicentro. L’ennesimo braccio di ferro tra Obama e il GOP evidenzia – ancora una volta – un vortice di contraddizioni e vicoli ciechi pronti ad esplodere da un momento all’altro. Un guazzabuglio di nefandezze ed errori che non risparmia nessuno dei due contendenti.
Innanzitutto i repubblicani. Non solo a causa di un tatticismo politico sempre più becero ai limiti dell’autolesionismo (come il caso indecente della lettera ben dimostra). Ma anche in forza di una profonda dose di ipocrisia ideologica che solo la speranza in un elettorato stupido o smemorato può continuare ad alimentare. La demonizzazione dell’Iran da parte del GOP ignora o finge di ignorare difatti una delle più grandi vergogne che la storia americana ricordi: lo scandalo Irangate a metà degli anni ’80, allorché a seguito della rivoluzione khomeinista – in piena crisi degli ostaggi – uomini vicini all’allora presidente Ronald Reagan decisero in segreto di rifornire militarmente l’Iran in chiave anti-afghana, per destinare poi i proventi di tale traffico ai Contras del Nicaragua. Un episodio che mostra chiaramente come la difesa enfatica che molti neoconservatori oggi manifestano a favore di Israele sia soltanto vuota (e interessata) retorica.
Ma se Sparta piange, Atene non ride. La strategia che Obama ad oggi vuole seguire non risulta essere particolarmente chiara, soprattutto in una prospettiva a lungo termine. Se difatti il fine principale di questa significativa apertura all’Iran sembra essere (oltre a un’alleanza strategica contro l’Isis) quello di ripristinare in loco una situazione più o meno simile a quella antecedente al 1979, c’è tuttavia da rilevare come da allora gli interlocutori siano cambiati. Oggi non c’è più lo Scià di Persia: sovrano occidentalizzato, fautore di uno stato laico e sostanzialmente anti-islamista. Gli uomini con cui difatti l’amministrazione Obama deve interfacciarsi sono – a partire da Rohani – tutti eredi diretti (se non addirittura protagonisti) di una rivoluzione – quella khomeinista – che fondò notoriamente sull’integralismo coranico sciita la propria ragion d’essere. Il rischio per Obama è allora quello di cadere nell’errore che fu di Carter prima e di Reagan dopo: credettero di trovare nell’islamismo un alleato contro l’Unione Sovietica e finirono per allevarsi poi una serpe in seno. Un’apertura di credito eccessiva verso un paese, che non ha ad oggi ancora fatto chiaramente i conti con il suo recente passato fondamentalista (e anti-americano), potrebbe effettivamente gettare le basi per un pericolo futuro.
Senza poi contare la contraddizione in termini ideologici di una foreign policy (quella obamiana) che sconta il paradosso di aver voluto coniugare idealismi e Realpolitik: il paradosso in virtù di cui prima si interviene militarmente per destituire un dittatore al tramonto come Gheddafi inneggiando ai diritti umani e poi si avviano trattative con un paese (l’Iran) che con quegli stessi diritti umani pare non abbia proprio una grande dimestichezza. E non citiamo il caso di Assad: prima sanguinario tiranno da abbattere, oggi partner blandito da John Kerry in persona.
La situazione che si profila non appare quindi delle migliori: da una parte un Congresso a maggioranza repubblicana disposto a qualsiasi cosa pur di colpire il proprio avversario; dall’altra un presidente irretito in una politica estera sinora assolutamente contraddittoria che non fa certo ben sperare per il futuro. Una baraonda caotica che minaccia di rivelarci sorprese ben poco piacevoli in aree geopolitiche già abbastanza in fibrillazione. Il dramma di una superpotenza ormai sull’orlo di una crisi di nervi. Tutta muscoli e poco cervello.
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