America
Il voto negli USA tra conflitti interni e stanchezza imperiale
Joe Biden è il 46esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. Al termine di un’estenuante campagna elettorale caratterizzata soprattutto dal Covid-19 e dopo un interminabile spoglio di voti arrivati in gran parte per posta, il settantottenne senatore del Delaware, Democratico di orientamento centrista moderato, ha raggiunto e superato la cifra fatidica dei 270 voti grazie al successo conseguito in Nevada e soprattutto Pennsylvania. Nonostante il mancato riconoscimento della sconfitta e le minacce di non precisate azioni legali tese a ribaltare l’esito del voto da parte del Presidente uscente Trump, ormai i giochi sembrano fatti e, salvo clamorose sorprese, il 20 gennaio del prossimo anno il nuovo inquilino della Casa Bianca presterà giuramento davanti al Campidoglio.
Il nuovo Presidente si troverà alla guida di un’America divisa, provata e preoccupata dall’epidemia Covid-19 e dalle sue nefaste conseguenze sull’economia, oltre che dalla crescente conflittualità interna tra supporters radicali sempre più rumorosi, aumentati in gran misura in entrambi i partiti e in diversi movimenti a loro affini nel corso dell’ultimo decennio. Una contrapposizione con toni violenti come quella esistente oggi oltre oceano non si ricordava, se non in rari momenti della storia recente americana, e mette seriamente in discussione la coesione nazionale e la capacità di collaborazione tra i due partiti, entrambi tradizionali punti di forza della Superpotenza. Impossibile ignorare come ad inasprire il clima di tensione e ad aizzare gli animi abbia contribuito in maniera determinante Donald Trump, con gli incitamenti ai movimenti di estrema destra e complottisti, i frequenti infuocati attacchi e i numerosi insulti lanciati a mezzo di messaggi sui social network nel corso del suo mandato presidenziale e nelle campagne elettorali, culminanti nelle incredibili accuse di brogli indirizzate al Partito Democratico e alla proclamazione della propria inesistente vittoria. Il tycoon newyorkese ha ampiamente dimostrato di essere capace solo di dividere e non di unire, di saper pensare al suo interesse personale e non a quello della nazione, posto sempre in secondo piano. Il ruolo di Trump si inserisce però in un contesto di pesante conflittualità già presente ed evidente durante la presidenza Obama, in cui già il movimento dei Tea Party aveva fortemente radicalizzato lo scontro politico utilizzando toni violenti e arrivando addirittura a contestare la legittimità dell’allora Presidente. Dall’altra parte il Partito Democratico del dopo Obama ha dovuto fare i conti con un sempre maggiore peso della sua componente radicale e liberal, incarnata dai “vecchi” Sanders e Warren e da giovani rampanti deputate come Alexandra Ocasio-Cortez, che esprimono apertamente idee socialdemocratiche e proposte basate su un ampio programma di interventismo federale, estranee alla cultura economica del paese degli ultimi decenni. La nuova sinistra d’oltre oceano si è inoltre distinta anch’essa per una retorica molto aggressiva nei confronti del sistema capitalistico, degli avversari politici e financo della stessa storia americana e occidentale (si pensi ai movimenti che con la scusa dell’antirazzismo si dedicano ad abbattere statue e a processare il passato), oltre che su temi divisivi come i cambiamenti climatici e le questioni razziale, di genere e identità sessuale.
Quel che non si può negare a Donald Trump è certamente la capacità di aggregare attorno a sé un vasto movimento di popolo che lo riconosce come proprio leader, con caratteri quasi messianici che vanno oltre l’appartenenza politica. Da vero e paradigmatico leader populista. Trump, magnate immobiliarista dell’upper class newyorkese, ha saputo rappresentare l’America profonda, orgogliosa della propria nazione, dei suoi simboli e del suo stile di vita, e decisa a difendere sicurezza, lavoro e posizione sociale minacciati da forze e fattori interni ed esterni, quali le elite liberal e tecnocratiche, le tasse per finanziare spesa sociale, gli immigrati, i disordini delle lotte razziali, i lockdown anti-Covid, la globalizzazione e le politiche ambientali sfavorevoli all’industria, soprattutto petrolifera. E’ l’America del sud, degli stati interni e delle aree rurali, contrapposta a quella prevalentemente Liberal delle coste e delle metropoli. Ma è anche l’America del Midwest, sanguinante cuore industriale del paese, che tanto ha sofferto nella Grande Crisi e negli anni successivi per poi consegnare a sorpresa proprio a Trump la Casa Bianca quattro anni fa. E’ infine l’America dei lavoratori bianchi di discendenza europea e soprattutto tedesca, il canone etnico WASP dominante dell’Unione, che manda i propri ragazzi a combattere le guerre imperiali e non accetta di perdere il proprio status e contemporaneamente sentirsi fare la morale dai Liberal di New York o della California, dai quali è guardata spesso con disprezzo, puntualmente ricambiato. La politica e la retorica di Trump non sono estranee alla storia americana. Entrano nel solco di quella grande tradizione che Walter Russell Mead definisce “Jacksoniana” (da Andrew Jackson, settimo Presidente dell’Unione) e che ciclicamente porta suoi esponenti ai vertici della nazione. Pensare agli Americani prima che a tutto il resto (America First), fare gli interessi delle proprie imprese e lavoratori, abbandonare i costosi impegni internazionali (siano alleanze militari vincolanti o costosi trattati commerciali e ambientali), mostrare la bandiera e reagire duramente con la forza militare in caso di minacce o provocazioni di nemici esterni. La politica Trumpiana incarna queste caratteristiche nazionaliste, ma, a differenza di altri leader del passato come Reagan o G.W. Bush, lo fa con una tale sfrontatezza ed un’aggressività nei confronti del percepito establishment economico-mediatico-culturale che lo fa riconoscere come “uno di loro” dai suoi supporters. La forza di Trump tra l’elettorato è stata talmente potente da trasformare lo stesso Partito Repubblicano, in cui nel 2016 era l’intruso mal sopportato, mentre oggi, dopo quattro anni di presidenza, gode di ampio consenso. Non sarebbe fantascientifico pensare che, in caso di rottura con gli altri notabili del partito dopo le elezioni, The Donald valutasse di uscire dal GOP e lanciare una propria compagine tentando di prenderne il posto. Più facile immaginare che nei prossimi anni rimarrà un fattore determinante nella vita del partito e nella politica americana, anche attraverso la possibile ascesa nell’agone elettorale di qualcuno dei suoi figli o addirittura una nuova candidatura nel 2024, come paventato nelle ultime ore.
All’inquietudine dei bianchi arrabbiati e preoccupati per il proprio futuro fa da contraltare la rabbia dei ceti suburbani e poveri afro-americani e di parti delle comunità ispaniche, maggiormente colpiti dalla pandemia e dalla crisi economica oltre che spesso senza adeguate tutele sociali. Essa si rivolge contro le istituzioni, in vari casi non esenti da comportamenti razzisti, ma anche contro la stessa natura capitalistica del sistema e la classe media, oltre che contro Trump. Le proteste successive alla morte di George Floyd per mano della polizia di Minneapolis, in cui si sono inseriti gruppi e movimenti che hanno messo a ferro e fuoco interi quartieri di quasi tutte le grandi città dell’Unione, sono state lo sfogo di questo malessere. La conseguenza è stata ovviamente l’allarme generato in buona parte della popolazione interessata soprattutto a difendere i propri beni e la propria sicurezza che, quando non viene garantita dalle forze dell’ordine, per molti Americani è giusto e doveroso tutelare con le proprie armi o anche con il supporto delle milizie composte spesso da gruppi suprematisti di estrema destra con in braccio il fucile mitragliatore e sui telefonini i tweet compiacenti e incoraggianti del Presidente Trump, ben lieto di utilizzare il ben noto slogan “law & order”. Una situazione incandescente che ha lasciato morti sull’asfalto, da una parte e dall’altra. La comunità nera, in particolare (per gli ispanici il discorso è più complicato e segue anche dinamiche geopolitiche a seconda della provenienza), ha pertanto puntato su Biden e i Democratici, votandoli in massa dopo la freddezza mostrata verso Hillary Clinton quattro anni fa, sia per comprensibile astio verso Trump che per speranza nelle promesse di incremento del welfare state annunciate dall’ex senatore del Delaware, a cominciare dai programmi di assistenza sanitaria pubblica. E’ stato in questo modo colorato di blu uno stato tipicamente repubblicano come la Georgia (i dem non vincevano dal 1992), al traino della marea di voti acquisiti nella contea includente Atlanta, e sono stati ripresi tradizionali stati come Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, ove i voti dei grandi agglomerati urbani si sono sommati ad una parte di “delusi” da un Trump che, al di là della retorica e dei buoni propositi, non è riuscito a mantenere la promessa di riportare le fabbriche e il lavoro ai propri elettori.
Joe Biden è molto probabilmente l’uomo giusto in un momento così delicato per tentare di calmare gli animi, riportare coesione e pace sociale, recuperare lo spirito di collaborazione tra due anime della nazione che non si parlano e non si capiscono. La stessa presenza di un Senato a maggioranza repubblicana potrebbe permettere al neo-Presidente di resistere alle istanze più estremiste provenienti dalla sinistra del partito. Non sarà però un’impresa facile. I motivi di conflittualità sono ancora tutti presenti e non sembrano destinati a scomparire, mentre è plausibile che Donald Trump, o qualcuno al suo posto, continuerà a mantenere alto il livello dello scontro con lo scopo di lucrare sulla contrapposizione frontale, anche nei confronti delle voci moderate del proprio partito, aiutato dai nuovi canoni della comunicazione politica basata sulla semplificazione e sulla riduzione del messaggio date dai social network. L’atteggiamento conciliante di Biden mostrato durante i primi discorsi post-elettorali è in ogni caso incoraggiante e va verso questa direzione, che dovrebbe comprendere anche una demitizzazione del ruolo del Presidente, per privilegiare maggiormente una gestione più pragmatica e professionale dei dossier. Tali propositi dovrebbero essere accompagnati da un rapporto certamente più semplice con il deep state e gli apparati federali di quanto si sia visto con l’Amministrazione uscente, oltre che da una narrazione più gradevole nei confronti dei partners esteri. Nella consapevolezza che il Presidente degli Stati Uniti non determina, se non in parte, la postura geopolitica e il ruolo nel mondo del proprio paese, dipendente piuttosto da indirizzi di lungo periodo, vincoli di natura sistemica e dal capillare lavoro delle agenzie governative ad esse dedicate, dal Dipartimento di Stato al Pentagono, dal National Security Council a Cia e Fbi. Chiedere allo stesso Trump, i cui propositi di far pace con la Russia, abbandonare la prestigiosa ma costosa funzione di egemone mondiale e mettere in discussione la Nato sono stati puntualmente neutralizzati, mentre la sua retorica aggressiva sul piano commerciale è stata utilizzata dall’establishment strategico per orientare una postura più assertiva nei confronti di competitors che avevano oltrepassato certi limiti, come Cina, Iran e pure Germania. Perché, come scrive Dario Fabbri su Limes, gli imperi non vanno in pensione. O perpetuano la propria esistenza continuando a mantenere la leadership globale e colpendo inesorabilmente chi si appresta a minacciarla, o crepano. Il fardello imperiale sarà dunque portato sulle spalle ancora per molto tempo dalla Superpotenza. Perché a Washington non hanno altra scelta. A costo di veder crescere la stanchezza del proprio popolo, stretto tra concorrenza commerciale estera, guerre in luoghi remoti e crescenti costi sociali, in attesa di prospettargli la lotta contro un nuovo nemico, già individuato in Pechino, verso il quale probabilmente cambierà la narrazione ma non la strategia.
I prossimi due mesi saranno ancora carichi di tensione. Si spera tuttavia che Donald Trump cessi la baruffa post-elettorale e le temerarie battaglie legali, almeno per evitare di passare alla storia per la peggior uscita dalla Casa Bianca che si ricordi, al termine di una presidenza che comunque, nonostante i numerosi allarmi del 2016, non ha portato a catastrofi e a svolte autoritarie come temuto da qualcuno. E’ il momento di “guarire l’America”, ha esclamato il vecchio Joe. E non si riferiva solo al Covid-19. Opera impossibile per un Presidente, da solo. Dovranno essere gli Americani a “guarire” loro stessi e a mantenere grande la loro nazione (parafrasando uno slogan elettorale), nella consapevolezza che il sistema è soggetto a fibrillazioni ma flessibile, la democrazia salda e matura e la potenza economico-militare incomparabile. Per un nuovo secolo americano. Con buona pace di chi, in qualche capitale dall’altra parte dell’Oceano, sogna già di approfittare delle difficoltà del Numero Uno.
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