America
Il Venezuela rischia di diventare la Siria del Sudamerica
Nella storia del Sudamerica il Venezuela – insieme alla confinante Colombia – ha sempre giocato il ruolo del bastian contrario. Negli anni ‘60, mentre il resto del continente scivolava nella dittatura (pensiamo al colpo di stato in Brasile del 1964, o alla Revolución Argentina del 1966), la democrazia venezuelana resisteva, pur con tutte le sue fragilità; negli anni ’80, mentre Argentina, Brasile e Cile tornavano gradualmente alla democrazia, il paese scivolava nel caos.
Nel 1992 i due tentati golpe per opera del militare Hugo Chávez e degli ufficiali a lui leali, rendevano palese al mondo la gravissima crisi, politica ed economica, di un Venezuela sfiancato dalla cura neoliberista e lacerato da profonde tensioni sociali. Urgeva un cambio di rotta. Nel 1999 l’elezione proprio di Chávez a presidente inaugurava la lunga stagione del socialismo bolivariano, tra luci e ombre. In un mondo globalizzato e sempre più lontano dai valori marxisti, il Venezuela era visto dai suoi simpatizzanti come il miglior esempio di “socialismo del XXI secolo”; dai suoi critici, come una Cuba 2.0 tenuta in vita solo dai soldi del petrolio.
Molte le misure di Chávez a favore degli ultimi, dei poveri delle immense favelas di Caracas, Maracaibo, Valencia. Sotto la guida dell’ex militare, il Venezuela si trasformava in uno dei più fieri detrattori mondiali di Washington, e in un affidabile partner di Russia, Iran e Cuba nel continente. Un regime in bilico tra nazionalismo e solidarietà internazionale, autoritarismo e progressismo: suo emblema non ufficiale la Torre di David, grattacielo ex sede di uffici finanziari, sorta di “baraccopoli verticale” nel cuore di Caracas dove criminalità e autogestione, welfare dal basso e squallore si mischiavano, colpendo l’immaginazione di cineasti e filosofi in tutto il mondo.
Ma il Venezuela chavista perdeva gran parte del suo (limitato) slancio con la morte di Chávez, nel 2013. Gli subentrava Nicolás Maduro, che del suo predecessore non aveva né il grande fiuto politico, né il carisma. Intanto sempre più venezuelani voltavano le spalle al chavismo, e soprattutto votavano con i piedi, abbandonando in tutti i modi possibili il paese: quasi due milioni e mezzo, secondo le stime UNHCR-IOM, si sarebbero rifugiati negli ultimi anni in Colombia, Perù e altri paesi sudamericani, mentre mezzo milione avrebbe trovato riparo in America settentrionale, Australia ed Europa.
Oggi il chavismo sembra essere entrato nel suo stadio terminale. Perché non solo la borghesia impoverita dall’inflazione, ma anche milioni di cittadini a basso reddito, ex sostenitori di Chávez, non riescono più a tollerare la crisi economica, e i crescenti livelli di povertà, fame e insicurezza. Le elezioni del maggio 2018, che avrebbero dovuto dare nuova legittimità a un presidente estremamente controverso e logorato dalle proteste di massa, si sono trasformate in un ulteriore fattore di grave destabilizzazione: palesemente irregolari, hanno rafforzato l’opposizione, e indebolito il governo; la UE, l’OAS e gli Stati Uniti ne hanno respinto l’esito, mentre la Cina, la Russia, l’Iran, la Turchia e la Corea del Nord le hanno riconosciute valide.
Quello che negli anni ’60 era uno dei paesi più ricchi del continente, e un’oasi di benessere per migliaia di immigrati italiani, oggi è ridotto all’ombra di sé stesso. L’economia è ridotta al lumicino, l’82% della popolazione vive in condizioni di povertà (il 52% in condizioni di estrema povertà), il denaro non vale quasi più nulla: per comprare anche solo un po’ di pane bisogna riempire una borsa di svalutatissimi bolivar (e del resto, con un’inflazione superiore al milione per cento…)
Ma qualcosa sta cambiando. Il 23 gennaio, nel corso di una manifestazione di protesta, il giovane presidente del parlamento Juan Guaidó si è autoproclamato “presidente encargado” (ossia ad interim) al posto di Maduro. Senza tanti giri di parole, Guaidó ha definito il successore di Chávez “El Usurpador”, l’usurpatore. Stati Uniti, Canada, Brasile, Cile e molti altri paesi americani hanno riconosciuto Guaidó come nuovo presidente.
“Esta vez sí”, questa volta sì, gridano le folle a Caracas e in altre città del paese. “Se puede”, si può. Tra loro ci sono molti studenti universitari, intellettuali ed esponenti di un ceto medio da sempre ostile al chavismo e alle sue riforme egualitarie; ma non mancano le casalinghe, gli operai, i pensionati ottuagenari stanchi, come raccontava ieri El Diario de Caracas, di non trovare medicine negli ospedali e cibo nei supermercati. Se il Venezuela fosse un paese normale Maduro starebbe fuggendo all’estero in elicottero. Ma il Venezuela non è un paese normale, nel bene e nel male.
Al momento sembra che Maduro possa contare sul supporto dei militari. Il militare Vladimir Padrino, ministro della difesa e “secondo uomo più potente del Venezuela”, si è schierato con il presidente, accusando gli USA, il Brasile e l’opposizione di complottare contro Maduro e il suo governo. Padrino gode di una certa popolarità in Venezuela: sul suo account Twitter, seguito da oltre mezzo milione di persone, si definisce “soldado bolivariano, decidido y convencido de seguir construyendo la patria socialista!” (soldato bolivariano, deciso e determinato a continuare a costruire la patria socialista!).
In quella che de facto è quasi una diarchia, Padrino rappresenta l’assicurazione sulla vita del regime chavista: finché riuscirà a tenere sotto controllo i militari, sarà molto difficile liberarsi di Maduro senza il consenso del presidente stesso. I numeri sono impressionanti: in un paese di 32 milioni di abitanti, le forze armate possono contare su trecentomila soldati professionisti, e sul mezzo milione di uomini e donne della riserva; inoltre in base a stime dell’OAS ci sarebbero nel paese 15mila consiglieri militari cubani, ben armati e poco interessati alla sorte del popolo venezuelano. Come se non bastasse, secondo la Reuters i temuti mercenari russi del gruppo Wagner si sarebbero recati in Venezuela per rafforzare il dispositivo di sicurezza di Maduro.
Il rischio di una guerra civile è tangibile. Non è raro sentire, tra i venezuelani, sinistri paragoni con la Siria. Anche perché sembra che non tutti i militari condividano la posizione di Padrino. Gli ultimi trent’anni di storia venezuelana sono costellati di violenza, sangue e morte. Ecco perché sono preoccupanti le dichiarazioni del presidente statunitense Donald Trump, che di recente ha ricordato come “all options are on the table”, tutte le opzioni siano sul tavolo.
Dato che il voto dei latinos sarà decisivo alle prossime presidenziali (specie in Florida), e che la schiacciante maggioranza di loro è molto ostile a Maduro, Trump potrebbe essere tentato da qualche forma di intervento nel paese sudamericano: questo non solo rafforzerebbe il partito repubblicano in molti stati, ma distoglierebbe l’opinione pubblica dal Russiagate.
Tuttavia un intervento americano in Venezuela, pur nelle modalità più indirette, rischierebbe di dar fuoco alle polveri. D’altra parte, la comunità internazionale non può non schierarsi a favore della democrazia in Venezuela, e sbagliano la Russia, la Turchia e la Cina a sostenere, per ragioni di mera politica di potenza, lo screditatissimo Maduro. Bisognerebbe invece rilanciare il dialogo tra il governo chavista e l’opposizione democratica secondo un percorso simile a quello seguito in Polonia con gli Accordi della Tavola Rotonda.
A riguardo la UE (che in queste ore ha chiesto nuove elezioni libere) potrebbe giocare un ruolo decisivo, specie grazie all’influenza della Spagna nella regione. Anche l’Italia, da sempre partner economico del paese sudamericano, potrebbe dare un contributo (anche se la spaccatura fra Lega e M5S a riguardo non fa presagire nulla di buono), così come la Santa Sede, anche in virtù del carisma del suo pontefice sudamericano. Ma occorrono competenza e sangue freddo. In gioco ci sono le vite di milioni di venezuelani innocenti.
Immagine di copertina: Pixabay
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