America

Il tramonto di Marco Rubio

16 Marzo 2016

Annientato. Proprio nello Stato che avrebbe dovuto rappresentare la rinascita, è avvenuta la catastrofe. La Florida ha voltato le spalle a Marco Rubio, preferendogli il rivale Donald Trump: che trionfa con il 45% delle preferenze, imponendosi brutalmente sullo smorto 27 registrato dal senatore di origini cubane. Un disastro, che ha spinto Rubio a fare un passo indietro, ritirandosi dalla corsa presidenziale. L’astro nascente del partito repubblicano è quindi tramontato. Il suo energico messaggio di speranza, ottimismo e fiducia in un New American Century è miserevolmente naufragato, tra i flutti inconsulti di un agone politico spietato e belluino, in cui il giovane ambizioso non è stato capace di sopravvivere.

Eppure, la sua candidatura sembrava inizialmente mostrare tutte le carte in regola per avere successo. Soprattutto dopo la debacle di Mitt Romney nel 2012, molti all’interno del partito repubblicano iniziarono a guardare a lui con un certo interesse. In un momento di forte crisi, Rubio appariva una figura in grado di risollevare un partito considerato vecchio e incapace di aprirsi a quote elettorali nuove (minoranze etniche soprattutto). Giovane, competente e di origini ispaniche, Rubio incarnava per molti l’identikit dell’homo novus di cui il GOP aveva disperato bisogno per cercare di rilanciare un’immagine ormai logora e offuscata. E questo il senatore lo aveva capito, tanto che si allontanò progressivamente dalle frange populiste del Tea Party (sulla cui scia era approdato nel 2010 al Congresso), per assumere posizioni più moderate, in linea con le visioni programmatiche dell’establishment. Un centrista baldanzoso, capace tuttavia di strizzare l’occhio alle destre. Un moderato non poi così lontano da un certo conservatorismo molto in voga da anni tra le file del GOP. Anche per questo, diversi vedevano in lui un’abilità di federatore: un nuovo Reagan che avrebbe potuto costruire una coalizione elettorale eterogenea, per dare la scalata alla Casa Bianca. Ma tutte queste speranze si sono irrimediabilmente infrante.

A fronte di un messaggio energico (nonché vagamente riecheggiante alcune categorie neocon), Rubio non era partito male, riuscendo in autunno a inanellare una serie di buone performance durante i dibattiti televisivi. E difatti in Iowa era stato capace di registrare un buon risultato: quasi un secondo posto, in uno Stato notoriamente fautore dell’ultraconservatorismo evangelico. Ma la catastrofe piombò poco dopo. Durante il confronto televisivo di Manchester (in New Hampshire), il giovane senatore non seppe replicare ai vigorosi attacchi del governatore del New Jersey, Chris Christie, il quale lo tacciava violentemente di essere troppo inesperto. Rubio si limitò a ribattere con slogan mnemonici, cucendosi addosso l’immagine di candidato prefabbricato e scavandosi così politicamente la fossa. Eh sì, perché da allora è stata una serie continua di secondi e terzi posti. Un’impossibilità quasi strutturale nell’emergere e conquistare la vittoria. E difatti, ad oggi il senatore poteva accontentarsi dei magri risultati di Minnesota, Porto Rico e District of Columbia: un po’ poco per un candidato che voleva presentarsi come cavallo vincente dell’establishment repubblicano contro l’ascesa di Donald Trump.

Il ritiro annunciato oggi da Rubio pone una serie di riflessioni rilevanti. Perché questa disfatta è certamente dovuta alla sua inesperienza e alla sua figura di candidato preconfezionato. Come dalla bislacca strategia, attuata negli ultimi giorni, di inseguire Trump sul suo terreno di insulti e cercare contemporaneamente di farsi passare come unico erede legittimo del glorioso pantheon repubblicano (se non citava Lincoln e Reagan in ogni discorso almeno una volta, non era contento). Ma c’è dell’altro. Il fallimento di Rubio va ben oltre un problema di semplice comunicazione o  marketing politico. La sua sconfitta  è difatti il tramonto di un messaggio, di un’idea, di una determinata visione dell’America. Rubio ha cercato di proporre i principi dell’ottimismo, della fiducia, del successo, che riecheggiavano nell’antico slogan reaganiano “It’s morning again America“. Rubio puntava cioè a un reaganismo redivivo cui tuttavia oggi gli Stati Uniti non sembrano più interessati. Compresi quegli stressi repubblicani che del vecchio Ronnie si riempiono sovente la bocca, salvo poi non seguirne più concretamente lo spirito. Il tramonto di Rubio costituisce qualcosa allora che va ben oltre la sua singola figura. E’ il tramonto di una certa America. Un’America che ha evidentemente fatto il suo tempo. Un’America che non vuole più sentir parlare di ottimismo e fiducia, ma che – di contro – guarda impaurita e arrabbiata verso un futuro sempre più incerto. Un’America cui Rubio non ha saputo parlare e che sta trovando in Donald Trump il proprio vigoroso rappresentante. Una fase storica sta morendo. E con il giovane senatore della Florida si chiude definitivamente un sogno. Anacronistico. Ingenuo forse. Ma comunque meraviglioso.

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