America

Il super martedì in cinque punti

2 Marzo 2016

1. Il declino degli intellettuali WASP.

Ancora martedì scorso, con Trump in testa ai sondaggi, il New Yorker – vera Bibbia del fighettismo WASP a stelle e strisce – scriveva che, in fondo, a Donald si dedica più spazio di quello che merita. Per non parlare di quello che succede in casa democratica, dove la leadership di Hillary Clinton è sancita dal voto compatto dei neri del Sud, risultato determinante.

C’è stato un tempo in cui in America non si muoveva una foglia senza che prima l’opinione dei liberal bianchi del North-East avesse dato il via libera. Ora gli sono rimasti solo gli Oscar, e visto il caso mediatico scoppiato quest’anno, con la palese esclusione degli attori afro-americani, probabilmente neanche più quelli.

2. “He tapped into something”.

Traduzione piuttosto complessa, qualcosa tipo “ha fatto breccia dentro qualcosa”. Sulla CNN mostrano il risultato elettorale della Virginia nel 2008 circoscrizione per circoscrizione e lo paragonano a quello della scorsa notte. Nel 2008 lo Stato era spaccato in due: in periferia il voto tea party per Huckabee, nelle aree urbane il voto moderato per il veterano Mc Cain. Quest’anno il Paese è compatto per Donald Trump, a dimostrazione di come ormai il voto per Trump abbia perso la connotazione di voto di protesta: un’enorme percentuale di Americani, diversi per credo religioso, situazione economica ed estrazione sociale vuole affidargli le chiavi del Paese perché ci crede.

Difficile stabilire quale sia la ragione ultima del successo del Bilionario di New York accolto come un Messia negli Stati più poveri del Sud. Di certo tutti conosciamo l’ossessione americana per le gaffes, per la ricerca di un generico ideale di “purezza” da esibire in pubblico, per il dominio incontrastato dell’ideologia politicamente corretta. Ecco, in un Paese dove la parola “mulatto” è considerata un’offesa razziale (“biracial” è l’espressione in voga), dove il “Christmas” è scomparso in favore della neutra “Holiday Season”, il fenomeno mediatico è un tizio che dice “mestruata!” a una giornalista su Twitter, chiama i messicani “Beans” (“fagioli”, tipo “mangiaspaghetti” per definire gli italiani) e manda al Diavolo il Papa. Il fenomeno Trump è quindi culturale, prima che politico, e potrebbe avere dei significati ancora più profondi e duraturi di quello che sembra oggi.

3. Populista e me ne vanto. 

Broad City” è uno show che va in onda sul canale Comedy Central. E’ un po’ “il nuovo Sex and the City” e racconta la vita di due giovani ragazze New Yorkesi alla prese con la vita da  single nella Grande Mela, il tipo di umorismo che fa impazzire gli studenti della Columbia o del NYU. A settembre, Hillary Clinton ha interrotto la sua campagna elettorale  per tre giorni (chiunque abbia partecipato a un’elezione primaria anche solo a sindaco di Cologno Monzese sa quanto sia fitta l’agenda dei candidati nelle settimane precedenti al voto: immaginate se correte per la Casa Bianca) e ha recitato come attrice in un episodio della terza stagione, in onda in queste settimane.

Flash.

A pochi giorni dal voto in Nevada, una donna latina piange disperata dopo che i suoi genitori hanno ricevuto una cartolina dalla Homeland Security, l’agenzia che da’ la caccia agli immigrati clandestini. Il suo viso si perde nel grembo di Donna Hillary, che la consola trattenendo a stento le lacrime dicendo che lotterà con tutte le sue forze per aiutarla.

Dopo i primi sondaggi e le bastonate dei caucus, è evidente il cambio di rotta. Tanti saluti a buona parte del suo vecchio staff e al tentativo di prendersi l’elettorato giovane e smart che fece la fortuna di Obama e sotto con massicce dosi di retorica che farebbero arrossire anche il berretto verde da soldato di John Wayne. E così mentre le donne under 30 votano al 70% per Bernie Sanders, sono le famiglie ispaniche o afro-americane arrivate al benessere grazie al marito Bill che consegnano alla sua consorte l’intero pacchetto di delegati proveniente dal Dirty South.

Ci si chiede come Sanders possa legittimamente puntare alla nomination a fronte di risultati così deludenti sul voto delle minoranze. Ma vale anche il ragionamento opposto: come pensa di vincere le elezioni di novembre la Clinton con un appeal così scarso sull’elettorato bianco e riformista, decisivo nel Mid-West.

4. Bernie c’è.

Gli ultimi, febbrili sondaggi davano la Clinton in testa ovunque, con Sanders ad aggiudicarsi il solo Vermont e lanciato verso il baratro. E invece Bernie si prende Colorado e Minnesota con percentuali che probabilmente non avrebbe nemmeno osato sognare, strappa l’Oklahoma e per un soffio perde il Massachusetts. Si fosse preso anche lo Stato di Harvard e Boston – sfuggitogli per meno dell’1% – ora staremmo raccontando un’altra storia, ma come egli stesso ha detto nel discorso di ringraziamento “sono dieci mesi che i media ci dicono non abbiamo speranze. Eppure siamo qui”. Impossibile dargli torto: da settimane giornali e TV raccontano di una nomination democratica ridotta a pura e semplice formalità da ratificare, mentre la partita è aperta oggi, dopo il Super Tuesday, cosa che a fine gennaio sarebbe stata un’eresia immaginare.

Certo, sulle minoranze (che poi, come dice Louie CK, per quanto ancora saranno considerate “minoranze”, dal momento che tutte insieme rappresentano più del 50% del Paese?) esercita lo stesso appeal di un calorifero, e probabilmente alla fine sarà la Clinton a spuntarla. Ma il modo e le dimensioni della vittoria di Hillary gettano più di un’ombra sulle elezioni di novembre, specie se un certo Michael Bloomberg dovesse decidere di scendere in campo.

5. Goodmorning, 1994.

Per noi italiani guardare la CNN o la Fox ieri notte era come prendere una macchina del tempo. Tutti a ragionare sui perché e i percome di questo bilionario diventato inarrestabile “fenomeno mediatico” nonostante le gaffe, a descrivere il suo stile “che sembra uscito da uno show televisivo”, che non c’entra nulla con “la vecchia politica”, che fa paura perché dotato di riserve economiche pressoché illimitate e che sta sconvolgendo le regole e il linguaggio della politica tradizionale.

Per un attimo ho dovuto controllare il calendario: sembrava di essere precipitati in Italia, nel 1994.

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