America

“Il rebus di Obama: Iran e sauditi non vogliono stare nella stessa alleanza”

17 Gennaio 2016

“Il Medio Oriente è nel caos”. Condanna senza appello, quella emessa da Henry Kissinger sul Wall Street Journal il 16 ottobre scorso. Scettico verso l’apertura statunitense a Teheran ma propenso a un coinvolgimento costruttivo della Russia, l’ex segretario di Stato evidenziava una situazione desolante e barbarica, oltre che di pericolosa destabilizzazione. Un’analisi severa, che con lucidità fotografava una crisi ad oggi più viva che mai. Dalla guerra in Siria al conflitto nello Yemen, passando per il rinnovato duello tra Iran e Arabia, l’incendio mediorientale non accenna a placarsi. E chiama direttamente in causa il ruolo degli Stati Uniti.

Per cercare di capire meglio questa situazione aggrovigliata, abbiamo deciso di intervistare il Generale Vincenzo Camporini. Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare Italiana dal 2006 al 2008, è stato Capo di Stato Maggiore della Difesa fino al 2011. Esperto di geopolitica, ci ha parlato in particolare delle recenti scelte politiche americane in seno alla regione mediorientale.

camporini

Generale Camporini, come giudica il comportamento dell’amministrazione Obama in riferimento alla crisi scoppiata tra Arabia Saudita e Iran?

Il problema dell’amministrazione Obama è stato quello di cercare di contemperare la necessità di un rapporto rinnovato con l’Iran, mantenendo la tradizionale alleanza con l’Arabia Saudita: il che equivale a dire cercare di combinare il diavolo con l’acqua santa. Entrambi possono essere il diavolo o l’acqua santa: non c’è un giudizio di valore. E’ chiaro che è un discorso di equilibrismo politico molto complicato, molto difficile. E io credo che in questo quadro l’amministrazione Obama si trovi in gravi difficoltà, perché l’ostilità tra questi due regimi è un’ostilità storica, che ha radici profonde, che vanno ben al di là dell’aspetto religioso. Stiamo parlando di due paesi che ambiscono ad avere un’egemonia regionale. Diciamo che l’aspetto religioso viene in qualche modo strumentalizzato, al fine di rendere più eccitata l’opinione pubblica nazionale di ciascuno dei due. E intervenire su questo tipo di rapporto così conflittuale è davvero complesso. Io credo che l’amministrazione Obama, da questo punto di vista, stia facendo un lavoro pressoché impossibile. E temo che non ci saranno dei risvolti positivi.

Secondo lei questa crisi avrà delle ripercussioni nei rapporti tra Stati Uniti e Russia?

Quanto al coinvolgimento della Russia, anche qui ci sono delle ambiguità di fondo che mi sembra non vengano risolte. Da un lato la Russia viene considerata il nemico storico, anche per la capacità lobbistica esercitata da chi ha subìto per decenni il dominio sovietico, che in qualche modo sta cercando o la rivincita oppure teme il riproporsi di una spinta espansionistica russa: sto parlando chiaramente di Polonia e Paesi Baltici. Dall’altro, c’è la volontà di trovare una sponda per poter in qualche modo influire in maniera efficace sulle questioni mediorientali, che apparentemente senza il contributo russo difficilmente troveranno una via d’uscita nel medio termine. E’ chiaro che si tratta di giochi di equilibrismo politico, molto delicati che hanno una possibilità di riuscita soltanto se chi li mette in atto ha una chiara visione politica del futuro a cui tendere. L’amministrazione Obama credo abbia un futuro così limitato che non abbia nessun tipo di orizzonte. Penso stia cercando soltanto di barcamenarsi.

Tornando alla questione iraniana, l’apertura di Obama a Teheran ha irritato non poco il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Lei crede che questo possa comportare un progressivo avvicinamento di Israele alla Russia?

Io credo che questo possa alimentare una volontà israeliana di recuperare una completa autonomia strategica. E’ un discorso molto complesso. E anche l’apertura americana nei confronti dell’Iran, io credo fosse assolutamente indispensabile e senza alternative. Tuttavia qui dobbiamo essere un po’ più cauti. Perché è vero che abbiamo ottenuto un sostanziale rallentamento, se non la chiusura completa, del programma nucleare che certamente ha delle possibilità di tipo militare. E’ altresì vero che prosegue in Iran la volontà di sviluppare sistemi di trasporto, cioè missili balistici con una portata superiore ai 3.000 km, che non hanno giustificazione se non con la disponibilità di un certo tipo di ordigno: non si lancia un missile del genere, per portare a destinazione 900 kg di tritolo. Quindi la buona fede del governo iraniano è tutta da dimostrare.

Il Wall Street Journal ha recentemente riportato che negli ultimi mesi Al Qaeda avrebbe riacquistato forza in Afghanistan. Lei come si spiega questa ripresa di un’organizzazione che in loco sembrava fortemente indebolita?

Qui parliamo di etichette, non parliamo di strutture. Dire che Al Qaeda sta rinascendo in Afghanistan è abbastanza opinabile: nel senso che ci sono delle tensioni all’interno di quel quadro politico per una ridistribuzione del potere, che coinvolgono numerosi attori. Ed è facile per qualcuno di questi attori appropriarsi di qualche etichetta, con una sorta di franchising che ormai è diventato di moda nel mondo politico mediorientale. E’ una dinamica interna al mondo afghano e credo che in futuro assisteremo a tanti giri di valzer: nel senso che chi si proclama talebano poi improvvisamente diventa miliziano dell’ ISIS o contrasta l’ISIS , poi si ridefinisce jihadista di Al Qaeda. E’ un aspetto molto complesso che ha a che fare con un quadro culturale che purtroppo l’Occidente non ha mai capito e che in qualche modo ha condizionato l’esito delle operazioni fin qui condotte.

Veniamo proprio all’ISIS. Lei come giudica quello che, almeno secondo diversi analisti, sarebbe il graduale disimpegno  di Obama nello scacchiere mediorientale? E, nella fattispecie, le responsabilità maggiori nella nascita dello Stato Islamico vanno attribuite a Obama o al suo predecessore?

A quest’ultima domanda non rispondo: non ho gli elementi per esprimere un giudizio e direi soltanto delle opinioni basate sul nulla. Circa il “progressivo disimpegno americano”, il disimpegno americano non è “progressivo”: c’è già stato. Ne abbiamo avuto la piena evidenza con il tipo di operazioni che sono state lanciate  da un anno e mezzo a questa parte, con grande enfasi retorica ma con uno scarsissimo contenuto pratico. Quando si è detto “abbiamo lanciato le operazioni aeree contro l’ISIS”, io, che ho fatto parte dell’Aeronautica Italiana e conosco come si conduce una campagna aerea, mi sono messo a sorridere: perché durante la campagna per il Kosovo – grande poco più dell’Umbria – venivano lanciate dall’Italia centinaia di sortite aeree al giorno. Nella campagna contro l’ISIS – su un territorio grande come l’Italia e la Germania messe insieme – ce n’erano meno di dieci. Questo mi dice che la campagna aerea era un semplice atto di tipo simbolico e quindi corrispondeva a una volontà di disimpegno, mascherata con una simbolica presenza. D’altronde io ricordo il discorso che fece l’ex segretario alla Difesa americano Gates a West Point, alcuni anni fa, in cui disse “chiunque nel futuro consiglierà al presidente americano di fare una campagna militare dell’ampiezza di quelle fatte sino ad ora, dovrà essere ricoverato in manicomio: il futuro delle operazioni sarà fatto da forze speciali, forze aeree e aeronavali”. Cosa che gli americani stanno facendo in pieno: tant’è che in questi giorni è stato nominato come nuovo comandante di CENTCOM un ufficiale che ha un background di forze speciali. Cosa che non era mai accaduta nel passato. Quindi gli americani hanno deciso di intervenire soltanto con azioni di tipo simbolico-punitivo, ma certo non per interagire o avere una diretta influenza sugli equilibri politici che si stabiliranno nelle varie aree di crisi.

Nell’attuale campagna per le presidenziali americane si stanno fronteggiando due linee contrapposte. Una tendenzialmente isolazionista, che trova in Donald Trump il proprio campione; e una invece più interventista con figure di vario genere: da Hillary Clinton a Jeb Bush e Marco Rubio. Di cosa crede abbiano bisogno gli Stati Uniti oggi? E soprattutto c’è, secondo lei, un candidato che risulterebbe migliore per le attuali sfide mediorientali, soprattutto poi davanti al protagonismo di Putin?

Le dichiarazioni dei vari candidati durante le varie campagne si sono spesso rivelate, alla prova dei fatti, cose da correggere e adattare alla realtà: una cosa è fare una dichiarazione politica basata su un’opinione, altra cosa è misurarsi con i fatti reali che accadono sul terreno. Guardiamo ad esempio quello che accadde quando, durante le campagne presidenziali degli anni ’90, ci fu da parte di vari candidati una serie di dichiarazioni di sganciamento dalle tematiche europee, salvo poi tuffarsi in pieno nelle crisi balcaniche. Quindi le dichiarazioni nelle campagne elettorali lasciano sempre il tempo che trovano. L’attuale quadro certamente vede quacluno che ha più l’intenzione di ritirarsi all’interno dei suoi confini e qualcuno che è un po’ più propenso a guardare al resto del mondo. Anche perché c’è piena consapevolezza che quello che accade in casa è direttamente influenzato da quello che accade fuori casa. Quindi gli atteggiamenti alla Trump sono atteggiamenti assolutamente fuori dalla realtà. E’ chiaro però che noi europei dobbiamo renderci conto che il presidente americano, che comunque influenza in modo diretto le nostre vite, guarda al suo elettorato: non certo all’opinione pubblica europea.

 

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