America

Il “nemico esterno” nella campagna elettorale Usa

21 Agosto 2020

C’è voluta Michelle Obama, nel suo discorso alla Convention democratica, per ricordare agli americani che queste elezioni sono su cose molto importanti che riguardano il loro paese e non altri. Su come vogliono “stare insieme”; sulla riduzione delle ingiustizie e delle diseguaglianze economiche; sulla “empatia” per chi non ce la fa nella vita; sulla capacità di gestire problemi complessi come epidemie e cambiamenti climatici. Non sono mancati i cenni alla politica estera per ricordare soprattutto l’isolamento progressivo degli USA su molti temi e il tradimento di alleati tradizionali, ma il focus per i Democratici è – come dovrebbe essere ogni elezione – sulle condizioni dei cittadini americani di tutte le estrazioni.

Eppure, per i Repubblicani e soprattutto per Trump, la campagna non è su questi temi, non è sul rispetto di tutti gli americani da parte delle forze dell’ordine, non è sulla riduzione delle disuguaglianze, non è sul sistema sanitario americano.  No, la campagna è su quanti calci negli stinchi si riescono a dare alla Cina, un paese a 8,000 km di distanza. La campagna è su chi tra Trump e Biden sarebbe più “duro” con la Cina. La campagna è su quale azienda cinese non solo “vietare” nei network americani, come fece già in parte Obama, ma anche tentare di uccidere in tutto il resto del mondo (Huawei). Su quale azienda cinese costringere a vendere ad un’azienda americana dietro minaccia di revoca dei permessi per operare (Tik Tok) o semplicemente “bannare” in maniera poco chiara (We Chat, usata da 19 milioni di americani). La campagna è su quante aziende cinesi costringere ad uscire dalla borsa americana dopo che intermediari, consulenti ed investitori americanissimi hanno fatto miliardi scommettendo sulle stesse. E su cosa farebbe invece Biden. La campagna è su quante portaerei mandare nel Mar Cinese Meridionale per infilarsi in controversie che vanno avanti da decenni e su cosa farebbe o non farebbe Biden. Oppure su quanti funzionari cinesi punire ed in che modo, per quanto avviene (di nuovo, da anni) nel Xinjiang, regione che forse 1 americano su 1000 (tra i quali il presidente) saprebbe identificare. O ad Hong Kong: peraltro unico argomento su cui c’è una convergenza bipartisan.

Biden cerca di riportare il discorso sugli errori nella gestione della pandemia, cerca di parlare di accesso all’università, ma il presidente come un signorotto medievale si sveglia al mattino e minaccia di togliere contratti governativi a chi fa utili vendendo prodotti a cittadini cinesi e si inventa i “10 milioni di posti di lavoro in 10 mesi” (dichiarazione del 19 agosto) che verranno realizzati “riportando a casa le produzioni “. Un discorso sempre più simile a quelli di Berlusconiana memoria che dimentica che quelli che hanno lasciato la Cina per colpa dei dazi imposti dagli americani sono andati altrove, dove costa ancora meno (Vietnam, Tailandia, Messico ringraziano). E che molti non sono mai andati via perché vogliono restare in un mercato sempre più importante, per una mera questione di numeri.

Ogni giorno, il paese viene distolto dai suoi problemi (o almeno così pensa il presidente), attraverso un altro “executive order” che fa piazza pulita di un altro tassello di relazioni economiche e diplomatiche, senza alcuna logica apparente.  Ormai anche la stampa americana, che ha contribuito a fomentare il clima di ostilità nei confronti del Dragone si rende conto di aver esagerato e fa marcia indietro, cercando un equilibrio, basta guardare gli ultimi articoli del Washington Post che si è accorto per esempio che gli USA potrebbero perdere decine di migliaia di studenti cinesi (le iscrizioni ai college sono crollate) e i maggiori think tank americani mettono in guardia dalla traiettoria sbagliata presa da un’amministrazione che sente di non avere nulla da perdere.

Intendiamoci, per una persona come Trump che a gennaio era sicurissimo di vincere un nuovo mandato mentre ora vede Biden sorpassarlo ogni giorno, è normale pensare che tutto dipenda dal virus e non dalle sue politiche. E che quindi siccome il virus è arrivato “dalla Cina” (mentre secondo il governatore di New York  è arrivato “dall’Europa”, ma poco importa), è colpa dei “cinesi” se non verrà rieletto.   L’ideale per lui a questo punto sarebbe una bella guerra diretta, magari nucleare perché no, il pianeta non ha abbastanza problemi.  In passato, i presidenti americani in difficoltà perlomeno sceglievano paesi piccoli, deboli e facili da abbattere con le “guerre elettorali”. A nessuno sarebbe mai venuto in mente un azzardo tale, il che spiega più che altro la disperazione.  Ai democratici non resterà che raccogliere i cocci e ricostruire se vinceranno, mentre a quei pochi che in Italia vedono nelle mosse di Trump una strategia per “difendere l’Occidente”, consiglio invece di dare delle grandi testate al muro che fanno meno male.

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