America

Il fattore Gary Johnson

18 Settembre 2016

Le presidenziali americane del 2016 potrebbero rappresentare un’ottima occasione per gli outsider. Da mesi, i sondaggi fotografano come entrambi i principali candidati, Hillary Clinton e Donald Trump, registrino tassi di sfiducia elettorale particolarmente elevati. Un dato interessante, che – guarda caso – starebbe rafforzando candidati terzi, come Jill Stein dei Verdi e Gary Johnson del Libertarian Party. E proprio quest’ultimo, secondo molti analisti, disporrebbe ad oggi delle maggiori possibilità di conseguire un ottimo risultato a novembre. E se una sua vittoria appare decisamente improbabile, bisogna comunque tener conto di diversi elementi.

Innanzitutto, a livello generale, il Libertarian Party è da tempo in America il più forte tra i partiti minori. Nato nel 1971, ha sempre raggiunto risultati discreti, il migliore dei quali fu conseguito nel 2012 dallo stesso Johnson, che tuttavia non riuscì ad acquisire neppure un delegato. Tutto questo per dire che non si tratta di un partito improvvisato: ha una sua struttura, una sua organizzazione, una sua (talvolta concitata) dialettica interna. Elementi che quest’anno – data la situazione – potrebbero tornare utili.

In secondo luogo, l’altro punto di forza risiederebbe proprio nello stesso Johnson. Ex governatore del New Mexico e un tempo appartenente al Partito Repubblicano, Johnson ha generalmente militato alla sinistra del Libertarian Party. A livello generale, questo partito si è difatti costantemente diviso su diversi punti, a partire dalle questioni eticamente sensibili (soprattutto l’aborto). Contrariamente all’ala più conservatrice (facente capo al filosofo anarco-capitalista, Murray Rothbard, e alla figura di Ron Paul), Johnson si è sempre detto favorevole alla legalizzazione della marjuana, nonché ad una prospettiva di stampo pro-choice.

Ebbene, secondo non pochi analisti, tutto questo potrebbe avvantaggiarlo enormemente nell’ambito di una campagna elettorale bizzarra come quella del 2016. Anche perché – si fa notare – rispetto ad alcune frange piuttosto radicali (se non addirittura anarcoidi) del Libertarian Party, la posizione attualmente incarnata da Johnson è definibile come abbastanza centrista. In barba ai rigurgiti oltranzisticamente anti-Stato di alcuni suoi compagni di partito, l’ex governatore si dice convinto che alcune attività private vadano regolamentate. Ad esempio, pur essendo un sostenitore del II Emendamento (e quindi del libero possesso di armi), si dice favorevole ad introdurre controlli e regolamentazioni. Inoltre, è un sostenitore del Civil Rights Act e ha costantemente rifiutato di appellarsi al I Emendamento per promuovere leggi discriminatorie verso i gay.

In virtù di ciò, Johnson risulterebbe popolare soprattutto tra gli elettori mossi da maggiore idealismo (a partire dai giovani), laddove è più difficile possa sfondare tra le classi lavoratrici impoverite della Rust BeltAnche per questo, molti ritengono che un candidato originariamente considerato pericoloso per Trump, possa invece rivelarsi deleterio per Hillary Clinton. Nonostante alcune quote del Partito Democratico non digeriscano le sue idee in tema di liberismo economico, è altrettanto vero che una fetta neppur tanto piccola di elettori democratici possa decidere di rivolgersi a lui per le sue posizioni etiche (e in parte sociali) tendenzialmente liberali.

Questo poi non significa che Johnson non possa succhiare anche dal bacino repubblicano, in particolare dall’area dei nemici di Trump: basti pensare che l’ex governatore della Florida, Jeb Bush, ha dichiarato tempo fa di essere intenzionato a votare proprio per il candidato libertarian. Eppure, a ben vedere, l’attuale collocazione politica di Johnson può effettivamente danneggiare in modo maggiore Hillary Clinton, proprio per il tono moderato che egli sta avanzando e per l’interesse su alcune problematiche politiche che condivide con l’ex first lady. Anche perché, in casa repubblicana, tra i maggiori nemici del miliardario newyorchese figurano quei neoconservatori che non digeriscono granché l’ideologia libertaria e che piuttosto potrebbero decidere di appoggiare un clintonismo redivivo.

Certo, non è che Johnson sia esente da gaffe. Qualche giorno fa, durante una intervista, ha mostrato di non avere la più pallida idea di che cosa sia Aleppo. Un inciampo tutto sommato poi non così grave in termini elettorali, visto che è a capo di un partito di isolazionisti che non ne vogliono sapere di addentrarsi nei meandri della politica estera. I numeri comunque al momento sono piuttosto incoraggianti e diversi sondaggi lo danno intorno all’8% a livello nazionale. Un dato niente male, che fa sperare possa eguagliare (e magari superare) il 19% di voti popolari, ottenuto nel 1992 dal terzo incomodo, Ross Perot. Tuttavia non bisogna dar nulla per scontato. Tradizionalmente, fino alla metà di settembre, gli elettori americani si dicono disposti a votare per terzi candidati, salvo poi convergere sui partiti maggiori man mano che l’appuntamento elettorale di novembre si avvicina.

Bisognerà quindi vedere se Johnson riuscirà a proseguire nella sua cavalcata. E – soprattutto – se riuscirà a farsi accettare nel primo dibattito televisivo insieme a Trump e Hillary Clinton, dove potrebbe seriamente approfittarne per spiccare il volo. Perché alla fine il punto è proprio questo. Se è quasi da escludere una sua conquista della Casa Bianca, la grande incognita sta nel capire a chi sottrarrà più voti. Ed è proprio ciò che fa di Gary Johnson oggi forse il candidato decisivo.

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