America

Hillary e Maggie: donne, politica e marketing

18 Novembre 2016

Lungi dall’essere la principale ragione di rammarico, la vittoria di Trump ha anche rinviato l’appuntamento con la prima donna alla Casa Bianca. Adesso è troppo facile improvvisarsi strateghi e bacchettare la Signora Clinton per gli errori della sua campagna. E’ più interessante provare a fare il confronto con una candidatura che, pur partendo da presupposti simili, è andata invece a buon fine.

Il termine di paragone si chiama Margaret Thatcher, anche se dal punto di vista dei democratici l’ex Premier inglese non può che essere vista come una reazionaria, il cui miglior lascito è – mia opinione personale – la legge che ha creato il famigerato “modello inglese” negli stadi.

I punti di contatto partono ovviamente dalla questione di genere: nessun uomo ha mai ottenuto dall’elettorato inglese tre mandati consecutivi, come Maggie, mentre gli USA ancora aspettano la prima Mrs President. Thatcher aveva 58 anni nel 1983, quando contro ogni pronostico vinse per la seconda volta, e Hillary ne aveva 60 nel 1997, quando a fare il bis fu suo marito. Entrambe sono diventate famose con il cognome dei rispettivi mariti, due figure molto diverse tra loro: se Bill è stato il 42° presidente degli Stati Uniti, Sir Denis Thatcher è stato una figura spesso relegata sullo sfondo, specialmente in campagna elettorale.

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Due donne candidatesi ai principali ruoli di potere nel mondo occidentale, ma dai destini opposti. Ugualmente poco empatiche, se mi si passa l’eufemismo, entrambe hanno vissuto il ribaltone dei pronostici e se per la Signora Clinton il risveglio è stato traumatico, per la “Iron Lady” il successo è stato il frutto di una precisa strategia.

L’impatto della guerra delle Falklands, svoltasi un anno prima delle elezioni, è stato importante, ma non spiega come Thatcher sia passata da sondaggi spaventosi ad una schiacciante vittoria. Le elezioni britanniche del 1983 sono infatti passate alla storia per l’irruzione delle tecniche di propaganda che fino ad allora erano caratteristiche tipiche della politica americana.

Nei mesi precedenti l’inizio della campagna, contro l’inquilina di Downing Street si era scatenata un’autentica sommossa da parte soprattutto dei giovani e degli artisti: sebbene il collettivo Red Wedge sia nato solo negli anni successivi, la maggior parte degli influenti artisti pop dell’epoca è da sempre stata contraria a Thatcher… tanto quanto U2, Springsteen e Madonna erano contro Trump!

Il principale capo di imputazione nei confronti di Maggie era la disoccupazione, i cui numeri erano raddoppiati durante il suo primo mandato, arrivando ad un totale di oltre tre milioni di britannici senza lavoro. Il partito laburista era certo che si trattasse di una partita già vinta, ma non aveva fatto i conti con Christopher Lawson, l’uomo-marketing assoldato dai “Tories” dopo la sua esperienza con gli americani della Mars.

Quali sono i punti di contatto tra la promozione di una barretta di cioccolato e quella di un Primo Ministro che ambisce alla conferma? Nell’interessante documentario di Michael Cockerell sulla storiche elezioni del 1983, Lawson dice che “l’unica differenza è che in politica non devi dire quali ingredienti vanno nel prodotto, ma per il resto è lo stesso: si tratta sempre di fare arrivare un messaggio a destinazione”.

Prima che Lawson prendesse le redini della comunicazione, i sondaggi davano i conservatori dietro non solo ai laburisti, ma anche all’SDP (i Socialdemocratici, nati da una scissione laburista solo due anni prima). Per ribaltare la situazione, la campagna elettorale ha rotto alcuni tabù, ad esempio caratterizzandosi, per la prima volta nella storia, con una canzone-inno: “It’s Maggie for me!”, che musicalmente ricorda molto “Hello Dolly” perché scritta dallo stesso autore, amico di Maggie.

Per riconquistare i giovani, alle invettive di Billy Bragg, Elvis Costello e Paul Weller i “tories” risposero con una sfilata di atleti pro-Thatcher: ragazzi e ragazze giovani, belli, muscolosi e quasi tutti biondi cotonati. Un’ondata di freschezza, sorrisi e buon umore che si rispecchiava nel nuovo logo del partito, un sapiente mix tra la Union Jack e la torcia olimpica, e in convention smaccatamente americaneggianti, frutto di quanto imparato da Lawson in dieci anni negli USA, dove aveva studiato con attenzione le tecniche comunicative di Ronald Reagan. Proprio l’ex presidente al quale Trump viene più spesso paragonato, a buona ragione.

Se la sconfitta di Hillary Clinton è stata letta come uno schiaffo all’estabilishment, c’erano tutte le premesse perché lo stesso accadesse alla potentissima Maggie, ma Lawson è stato così abile da trasformare il punto debole della sua candidata in una potente arma con la quale attaccare l’avversario. La campagna politica “più aggressiva di sempre” distrusse il programma elettorale dei laburisti evidenziando 15 punti nei quali esso era sovrapponibile al Manifesto del Partito Comunista Sovietico. Fu una mazzata tremenda per gli avversari, che persero cinque punti e non riuscirono più a recuperarli. Soprattutto, il fronte che sosteneva la candidatura di Michael Foot fu privato dell’unica vera arma a sua disposizione: la contestazione sulla disoccupazione. Gli spot conservatori, prodotti dalla Saatchi & Saatchi, affermavano che tutti i Primi Ministri di sinistra avevano promesso di ridurre della disoccupazione, senza mai riuscirci. Non era completamente vero, ma, come spiega Lawson stesso, “se ripeti una cosa continuamente, alla fine la gente la capisce… e la ripete lei stessa”. That’s advertising, baby.

Ai tempi (stiamo parlando di 33 anni fa) le tecniche di marketing erano viste come un’americanata dalla quale stare alla larga e il segretario del partito laburista Jim Mortimer affermava: “Non ci allineeremo mai a questo modo di presentare le nostre politiche. Noi parliamo di cose molto serie, come il benessere degli esseri umani e la lotta alla disoccupazione. Non trattiamo le persone come se fossero una scatola di fagioli!”. Dall’altra parte, al contrario, Lawson spediva due milioni di lettere personalizzate a potenziali elettori, attivandoli sui temi da evidenziare in campagna elettorale, faceva sondaggi telefonici e portava la candidata in tour con giornalisti al seguito, organizzando viaggi in aereo o in pullman per la stampa.

Venne varata anche la “sincerity machine”, definizione pomposa per un semplice “gobbo” elettronico, che consentiva di leggere il discorso preconfezionato, seppur guardando negli occhi il pubblico e dando quindi un’impressione di autenticità. L’uovo di Colombo? Sì, ma va ricordato che, prima della Thatcher, solamente Reagan aveva usato questo espediente in una campagna elettorale.

Gordon Reese, un ex produttore televisivo che aveva vissuto in California, gestì i rapporti con i media ed anche l’immagine di Maggie, lavorando sul suo aspetto e sulla sua voce. Persino il Quartier Generale dove si svolgevano le conferenze stampa fu rivoluzionato, ristrutturandolo e adottando due set diversi di tendaggi: azzurro o nero, a seconda del pathos che si voleva comunicare all’uditorio. E nel giorno della presentazione del programma elettorale, i giornalisti furono accolti da una marcetta marziale che, oltre a sorprendere gli astanti, evocava in loro il freschissimo successo nelle Falklands.

Anche il successo militare giocò la sua parte, questo è certo, ma mentre i laburisti gestivano i dati con carta e penna, sul fronte opposto si cominciava a trarre beneficio dalle prime elaborazioni al computer, che indicavano quali gruppi andare a stimolare per ottenerne il voto. 33 anni dopo, Hillary ha perso anche per via del clamoroso equivoco su “Ada”, l’algoritmo che doveva suggerire le mosse giuste e che invece non ha capito che l’endorsement di Beyonce non basta, se non sai conquistare chi vive nella “Rust Belt”.

 

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“Margaret on the Guillotine”, il brano di Morrissey che testimonia efficacemente i sentimenti di odio che molti artisti nutrivano nei confronti della Lady di Ferro

 

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