America

“SoHa non esiste, qui siamo a Harlem”: i newyorchesi contro la gentrificazione

5 Agosto 2017

Articolo e foto di Simone Somekh e Ignacio Rullansky.

Harlem non è solo il nome di un quartiere di New York. È una fetta intera della storia afroamericana negli Stati Uniti, con l’Apollo che sorge orgoglioso sulla centoventicinquesima strada, il Rinascimento di Harlem degli anni venti, la produzione orwelliana del Macbeth. Harlem è protagonista di infinite notti al ritmo di jazz e blues. Ė stata per decenni palco di rapper, artisti, attivisti politici. E quella storia continua ancora oggi, con gli hamburger del Harlem Shake e l’ultimo cortometraggio di Alicia Keys, incentrato sulla vita del quartiere.

Come dicono spesso i suoi residenti, Harlem è molto più di un’attrazione turistica: è un “villaggio” nel cuore del turbinio caotico che è la circostante New York. Un villaggio che però si trova ora a combattere contro i fenomeni della “gentrification”, del “rebranding”, della “mallification”. Dal 2010, diversi progetti immobiliari tentano di dare una nuova denominazione alla zona tra la centodecima e la centoventicinquesima strada: “SoHa”. Se il nome “Harlem” impone un bagaglio storico e culturale troppo grosso, suscitando immagini di povertà e crimine, invece “SoHa” — South of Harlem, un gioco di parole con l’elegante SoHo — accoglie nuovi investitori, proprietari e residenti promettendo un’area chic e tranquilla per ricchi che cercano nuove sistemazioni in una città in continua espansione come New York.

Spuntano nuovi cantieri, condomini di lusso e caffè dal gusto europeo, tutti con la scritta “SoHa”. E intanto i prezzi salgono alle stelle — precisamente, del 91 per cento dal 2005 ad oggi — spingendo residenti nati e cresciuti a Harlem fuori dalla zona, spesso fuori dalla città, in Connecticut, Virginia e Maryland. Nasce nel frattempo una campagna, ideata dall’agente immobiliare Danni Tyson per proteggere almeno il nome dell’area. “No a SoHa” è il motto di molti residenti che si oppongono alla ridenominazione. “SoHa significa la scomparsa di Harlem” dice Donna Gill. “Vogliamo preservare l’eredità e la storia di Harlem” continua Stanley Gleaton, membro del consiglio comunale della zona.

Simone Stokes, trentasei anni, sostiene sia una battaglia generazionale. “I tempi cambiano”, dice nel bar dove lavora, Harlem, un locale tranquillo su Malcom X che ospita liberi professionisti in opera ma offre anche un pessimo espresso. “Io non ho un problema con SoHa, sono i vecchi ad averlo”, dice. “Il luogo resta lo stesso, diventa solo più hip. Puoi scegliere se essere negativo, io scelgo di vedere la questione in modo positivo”.

Anche i proprietari di Caféine, uno dei bar incriminati per aver scritto “SoHa” accanto al nome del locale, non ci vedono nulla di male. Dean Elmatan ha venticinque anni e ha aperto Caféine insieme ad un investitore immobiliare. “Nessuno ha fatto caso al nome SoHa finché non ne hanno parlato in televisione”, dice. “Da quel momento, abbiamo ricevuto recensioni negative, ci è stato detto ‘Andatevene via’”. Il nome “SoHa” gli era sembrato alla moda allora, ora invece gli sembra una maledizione; infatti si dice intenzionato a liberarsene prima possibile (ma non l’ha ancora fatto).

Istituzioni come la Renaissance Ballroom sono state demolite, e la Lenox Lounge, uno dei locali jazz storici, dove si sono esibiti Billie Holiday e Miles Davis, sta per diventare un Sephora. Compromessi tra passato e futuro però esistono. Un esempio è il Harlem Shake, un ristorante fast food aperto nel 2013 da Jelena Pasic, imprenditrice croata. In pochi anni, il Shake si è creato un ruolo centrale nella vita del quartiere. Gli hamburger sono i preferiti dei figli dell’attore Neil Patrick Harris; Ron Brawz e Remy Ma hanno girato il video di “She Don’t Like Me” all’interno del locale; e il concorso “Mr. and Miss Harlem Shake” nomina ogni anno il personaggio più influente del quartiere (tutti i clienti possono votare). In prima linea tra i candidati, quest’anno, c’era proprio la Danni Tyson di “Harlem, No SoHa”, che però non ha vinto per pochi voti.

Harlem non è sempre stata la stessa. Anni fa, per esempio, era popolata da una florida comunità ebraica. Molte delle chiese del quartiere, prima di appartenere alle comunità cristiane afroamericane, furono costruite in origine come sinagoghe; solo negli anni della Depressione le comunità ebraiche si spostarono nel Bronx e in altre zone di Manhattan. Anche la comunità italiana si è spostata, e solo nei decenni a seguire la Harlem come la conosciamo oggi si è formata. Negli anni settanta e ottanta, in seguito a politiche punitive promosse dalla città di New York, Harlem, come molte altre zone, è stata “ripulita”, e oggi deve affrontare una nuova prova, quella della “gentrification”.

Ciò che spaventa la gente del posto è che la zona diventi identica a molte altre, perdendo la propria identità e storia a favore dell’anonimato. Si parla di “mallification”, la trasformazione di un’area in un centro commerciale. L’esempio è forse estremo, ma un dubbio si pone: SoHo esiste già e non ha bisogno di repliche, mentre cosa sarà di Harlem nei prossimi decenni diviene ora un grosso punto interrogativo.

Foto di copertina di Ignacio Rullansky.

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